di Angelo Allegrini
Inseguendo il filo dei ricordi, tornano alla mente fatti, posizioni e atteggiamenti del tempo del sequestro anche molto diversi tra loro. Non sarà dunque inutile o vano ricordare un poco di quel che successe a Viterbo durante quei cinquantacinque terribili giorni, partendo dall’esperienza personale della mattina del 16 marzo 1978.
A quel tempo frequentavo la quarta classe del liceo scientifico Ruffini; era il periodo dei decreti delegati che avevano provato ad introdurre dinamiche democratiche all’interno della scuola e di grande partecipazione in tutta la società, così quando bussò alla porta il bidello annunciando che mi voleva il preside, nessuno nella mia classe pensò che fosse successo qualcosa di strano. Il prof. Tullio Agabiti era subentrato solo da pochi mesi a Ferruccio Marzetti che aveva guidato in maniera paternalistica il liceo Ruffini dal 1946 fino al 1977; il nuovo dirigente scolastico era stato preceduto da una fama negativa che lo descriveva come fascista ed autoritario e per accattivarsi la simpatia di studenti ed insegnanti cercava spesso di instaurare rapporti di favore con elementi che potevano rendersi utili ai suoi scopi. Io ero uno dei capi del movimento studentesco nel Gruppo Studenti Democratici e così venivo chiamato spesso in presidenza, ma quella volta, assieme a me, erano stati convocati anche il rappresentante degli studenti di sinistra della F.G.C.I. e dell’Associazione Scuola Nuova, vicina alle posizioni del Fronte della Gioventù e del M.S.I.
“Vi comunico che poco fà le Brigate Rosse hanno rapito l’on. Aldo Moro e ucciso tutta la sua scorta – ci disse Agabiti preoccupato – siete liberi di uscire di scuola per fare tutto ciò che ritenete opportuno e recarvi dove credete“
Rimanemmo tutti sconcertati e confusi da una notizia che nella sua enormità poteva significare anche qualcosa di più grave ed immanente, così decidemmo di convocare subito per l’indomani una giornata di sciopero generale in tutte le scuole. Ci recammo nella sede di partito più vicina al Liceo che era la Federazione Prov.le del PCI in Via Marconi e, anche se poi il rappresentante di Scuola Nuova – di comune accordo con noi – non firmò il volantino, probabilmente fu la prima e unica volta che un iscritto del MSI mise piede pacificamente in una sede comunista; era ancora abbastanza presto e non c’era ancora confusione; ci accolse Assuero Ginebri che ci mise subito a disposizione il ciclostile ed i telefoni per l’organizzazione dello sciopero e di una assemblea che si svolse il 17 marzo al cinema Auditorium, alla presenza del Presidente della Provincia Polacchi e del vice sindaco di Viterbo Di Gregorio, con la partecipazione stimata dalla Questura di oltre settecento ragazze e ragazzi ma senza, o quasi, la presenza degli studenti del Liceo classico Mariano Buratti.
Questo perché il preside del liceo ginnasio – noto in città non solo per la sua fama di grecista – si rese protagonista di una vicenda riportata sia nella cronaca locale del Messaggero che sulle colonne dell’Unità; a differenza del suo omologo dello scientifico, il prof. Raimondo Pesaresi, con la frase “O la smettete o vi sospendo tutti“, aveva minacciato alcuni studenti che stavano distribuendo volantini per invitare ad aderire all’assemblea e, successivamente, preteso da otto “indisciplinati”, rei di aver preso parte alla stessa assemblea senza la sua autorizzazione, di essere accompagnati a scuola dai genitori per giustificare l’assenza.
Quella di Pesaresi non fu l’unica voce fuori dal coro. Chi si distinse, per mezzo di comunicati e di interventi, peraltro fischiati e contestati, furono il Movimento Lavoratori per il Socialismo, il cui forse unico rappresentante viterbese, solo un anno prima, aveva dichiarato in una riunione del movimento studentesco tenutasi presso la sezione Gramsci del PCI, in Via Vetulonia, che per lui “uccidere un poliziotto o un democristiano non è reato” e i rappresentanti di Democrazia Proletaria.
Due volantini distribuiti a caldo a Viterbo, rispettivamente dai due diversi soggetti, affermavano infatti, l’uno, che “il rapimento Moro è una grossa carta in mano alla D.C. per restaurare il suo potere per intero […] per portare avanti il processo di fascistizzazione dello stato in atto. […] Il rapimento Moro favorisce in pieno tale progetto reazionario della D.C.” e l’altro che i demoproletari ” intendevano prendere le distanze da tutta la canea governativa che con cinismo e opportunismo politico sfrutta la follia delle B.R. per trasformare questo stato di diritto nato dalla resistenza in uno stato militare e repressivo con leggi eccezionali antipopolari e militariste“.
In ogni caso in città, come nel resto del Paese, tra le forze sociali e politiche ci fu un comune sentire di solidarietà alla Democrazia Cristiana ed alle forze dell’ordine e di condanna all’azione terroristica ed assassina.
Secondo il Messaggero del 17 marzo 1978 vi fu nel Viterbese una reazione vibrante e l’atmosfera apparve simile a quella di 30 anni prima, dopo l’attentato a Togliatti, con i lavoratori mobilitati contro la minaccia alle istituzioni democratiche.
Il consiglio comunale di Viterbo tenne una seduta straordinaria con la partecipazione del presidente del tribunale Ferrauto, del procuratore della Repubblica Rolfo e del prefetto Pandolfini, mentre in consiglio provinciale il presidente Polacchi, dopo aver espresso solidarietà alla DC, preoccupazione per la persona di Moro e cordoglio per la morte degli agenti della scorta, dichiarò sospesa l’attività amministrativa ordinaria mantenendo tuttavia il Consiglio convocato in permanenza anche al fine di tenere in contatto i vari gruppi consiliari.
La Federazione unitaria CGIL, CISL e UIL indisse all’istante lo sciopero generale ed una manifestazione da tenersi nel pomeriggio in Piazza del Comune dove parlarono il sindacalista Arsiero Giuliarelli, il segretario provinciale della D.C. Renzo Trappolini, il presidente della Provincia Marcello Polacchi e il sindaco di VIterbo Rosato Rosati; per il sindacato era “opportuno presidiare sedi istituzionali democratiche, partiti, sindacati, Enti locali, uffici ed avere iniziative di mobilitazione esterne immediate […] Fermezza e unità popolare devono essere la garanzia di una risposta alla mano assassina […] chi intende portare nel Paese confusione o provocazione contro la battaglia di rinnovamento delle forze popolari deve sapere che la classe operaia è vigile“.
Anche il Comitato Provinciale della Democrazia Cristiana venne convocato in seduta permanente invitando “i propri iscritti alla massima prudenza e alla vigile attenzione verso i valori costituzionali della Repubblica“.
Il segretario Trappolini dichiarò “nel giorno del dibattito sulla fiducia al Governo che vuol portare il Paese fuori dalla crisi, si è voluto colpire la democrazia ed uno dei suoi più illustri esponenti ma le istituzioni resisteranno perché immediata è stata la risposta concorde delle forze politiche e sindacali“.
Il sindaco di Viterbo, Rosato Rosati, dichiarò a sua volta che”forse oggi bisognava sciogliere le campane per chiamare il popolo alla protesta ma anche se non lo abbiamo fatto abbiamo tuttavia sentito nelle nostre orecchie i rintocchi che ci ammoniscono alla concordia civica, a reagire allo sconforto. Sappiamo che non c’è spazio, non c’è futuro per tutti gli italiani se non nella democrazia, nella pace e nell’ordine. Le forze dell’eversione sono destinate alla sconfitta“.
[Continua]