di Lucio D’Ubaldo
E’ finita comunque la stagione di Zingaretti. Il Pd ha vissuto nell’illusione che il potere possa stabilmente surrogare la politica. La degenerazione è giunta a un punto limite, tanto da non reggere il confronto nemmeno con il rovinoso declino della Dc di Sbardella. Viene alla mente in queste ore il famoso “Rapporto Barca” sulla vicenda di Mafia Capitale. Non si riesce a capire, a distanza di tempo, come sia stato possibile attribuire ai Popolari una sorta di “peccato di contaminazione” del dato politico-organizzativo del partito. Sotto accusa, invece, è l’universo degli ex comunisti. Adesso il Pd, se non vuole implodere, ha la necessità di una una formidabile autoriforma.
La nomina di Alberto Stancanelli, uomo probo e competente, è la giusta risposta che si attendeva dal sindaco di Roma. Non conta l’ultima parte del comunicato stampa, quella in cui si ringrazia Albino Ruberti per il lavoro svolto. Si tratta, come tutti possono intendere, di una formula poco più che rituale per archiviare una presenza divenuta all’improvviso imbarazzante. C’è anche qualcosa di più, ovvero lo stacco da una logica che ad inizio di mandato sembrava configurarsi come una sorta di tutoraggio sull’attività del Primo cittadino. In ogni caso, la sgangherata reazione durante la cena misteriosamente video-registrata lascia una ferita profonda nel corpo politico del Pd. Si è dato uno spettacolo indecoroso di ciò che avviene nel retrobottega di partito, al riparo dai riflettori, lasciando sconcertata e perplessa gran parte della pubblica opinione.
È probabile che in campagna elettorale il peso della vicenda possa scemare di fronte all’incombenza di più serie questioni, tanto di politica nazionale che internazionale. Sta di fatto però che il gruppo dirigente appare a questo punto in grande difficoltà. Finisce la stagione di Zingaretti, il vero “inventore” dell’ex capo di gabinetto, e finisce decisamente male. La sua colpa è di aver distillato l’illusione che un potere diffuso, pervasivo, avvolgente possa surrogare il primato della politica. Il partito di Zingaretti, finanche a lui sgradito all’atto delle dimissioni da segretario nazionale, è stato plasmato a Roma e nel Lazio in forme e contenuti che più sgraditi non si può. Sono state chiuse porte e finestre per blindare un’accolita di fedelissimi, tutti tributari della generosità del Capo.
Tuttavia, sarebbe un errore immaginare che il problema sia sorto per effetto di una scelta di metodi incongrui. È la sostanza politica ad essere oggetto di riprovazione. Si è voluto un partito che soffocando il confronto politico eliminasse la dimensione del pluralismo – malgrado l’imprinting di “partito plurale” rivendicato dai fondatori del Pd. L’idrovora del potere ha risucchiato le diversità, salvo quelle legate alla spartizione del potere medesimo. Chi aveva conosciuto in passato il declino della Dc dall’interno, ha dovuto constatare – a maggior ragione dopo il caso Ruberti – che si è andati molto al di là della controversa epopea di Vittorio Sbardella, cui resistette solo la sinistra dc (e non tutta). All’epoca, nel contesto democristiano, l’opposizione era comunque riconosciuta, se non rispettata; invece, nel Pd di Zingaretti, l’opposizione è stata semplicemente eliminata. Con fare pacioso, ma non senza durezza.
Viene alla mente in queste ore il famoso “Rapporto Barca” sulla vicenda di Mafia Capitale, quello che servì da filtro per capire la degenerazione della politica romana e le responsabilità del Pd. Non si riesce a comprendere, a distanza di tempo, come sia stato possibile attribuire ai Popolari una sorta di “peccato di contaminazione” del dato politico-organizzativo del partito. Chi sarebbero stati questi Popolari? Dove li avrebbe visti Barca? Non si è mai saputo. Invece di calare il sondino nelle cavità della storia recente dei post-comunisti, si è gettato un po’ di fango nel ventilatore. Spiace doverlo ricordare con severità, ma quel Rapporto ha evidenziato la scorrettezza di analisi dell’estensore, fino al punto di prendere i fatti e stravolgerli come che sia, coprendo le vere responsabilità. E anche Orfini rimase sorpreso, senza poter correggere l’errore marchiano.
Ora, archiviato il passato, rimane la speranza di una ripresa del Pd. È interesse di tutti i veri democratici e gli autentici riformisti che ciò possa accadere. Ma questa ripresa esige un esame di coscienza limpido e trasparente, così da produrre sperabilmente un salto di qualità, un gesto persino di rottura, una sorta di rifondazione dal basso. Anche Roberto Gualtieri ne ha bisogno, a meno che non si rassegni a mettere pezze, di volta in volta, su un tessuto fin troppo logoro. Senza un motore politico – e cos’altro dovrebbe essere il partito cardine della maggioranza capitolina? – l’azione amministrativa è destinata a consumarsi nella dialettica tra buoni propositi e maldestre condotte. Adesso incombono le elezioni e dunque la disciplina fa premio su tutto. C’è però necessità di una vera autoriforma, anche per chi non è iscritto o addirittura non vota per il Pd. È una prova difficile, ma reca in sé la scommessa di un possibile riscatto che vada ben oltre l’ambiente politico capitolino. Altrimenti…il Pd (romano?) affonda.