Riprendiamo da ildomaniditalia.eu e pubblichiamo l’intervista di Gabriele Papini all’ex ministro dell’istruzione, nonché vicepresidente dell’Istituto Toniolo, Giuseppe Fioroni, in merito all’attuale crisi di Governo.
Questa conversazione doveva svolgersi diversamente, stando l’uno di fronte all’altro, magari in un bar all’aperto in qualche piazza del centro di Roma. Invece l’afa di luglio ha consigliato di ripiegare sulla comunicazione a distanza, lui idealmente con i piedi a bagno nel mare della bassa Maremma, io nel “buon retiro” della campagna senese.
Fioroni, già parlamentare di lungo corso ed ex ministro, oggi segue la politica con la stessa passione di sempre. Ci tiene a farlo, però, con un certo gusto di indipendenza, essendo per altro il Vice presidente dell’Istituto Toniolo. Sono giorni e ore di grande tensione per la crisi che ha investito il governo Draghi.
Una crisi incomprensibile, si dice. Ma è proprio così o c’è qualcosa, al fondo, che può spiegare l’improvvisa rottura provocata dai Cinque Stelle?
Al fondo c’è la difficoltà dei partiti a trovare un’identità e un progetto visibili, capaci di reggere di fronte agli elettori, fungendo perciò da calamita al momento del rinnovo del Parlamento, per attirare la fiducia degli italiani a seconda degli schieramenti. La crisi investe un po’ tutti, anche se gli effetti sono diversi. L’epicentro di questa difficoltà si scopre nella fibrillazione del M5S, tanto pericolosa da determinare a questo punto la brusca interruzione del lavoro portato avanti da Draghi. Ce lo possiamo permettere?
È una domanda, questa, che rimando senz’altro al mittente…
No, non credo proprio. Non possiamo affatto permettercelo. Mi ha colpito l’appello dei sindaci, forse perché vi rintraccio quel sentimento che ho vissuto anch’io da giovane, come primo cittadino di Viterbo. I sindaci avvertono, sicuramente più di altri, quali sono le urgenze, le sensibilità, le preoccupazioni delle nostre comunità. Mentre ci attendono scadenze importanti, il messaggio della politica – o meglio della parte irresponsabile di essa – appare quello del “rompete le righe”: alla fatica della mediazione, si preferisce la fuga in avanti e magari il voto anticipato, senza uno schema chiaro. L’appello, a mio giudizio, è soprattutto un invito a mettere al primo posto l’interesse della nazione.
Eppure, dicono gli assertori del voto subito, le elezioni sono il cardine della democrazia: non dovrebbero suscitare reazioni di contrarietà.
Non è questo il punto. Far credere che ci sia la volontà di anestetizzare la volontà popolare, con un rinvio sine die delle elezioni, è fuorviante. È la Meloni, più di altri, a insistere su questa rappresentazione non veritiera. Il problema è che sfasciare tutto a distanza di pochi mesi dal termine naturale della legislatura corrisponde al desiderio di acquisire un mandato a governare a prescindere dalla coerenza e solidità del disegno politico. Lo abbiamo visto a più riprese nel lungo ciclo della cosiddetta “seconda repubblica”: una coalizione vinceva e poi non governava. Ma perché accadeva? Evidentemente perché la combinazione di forze non stava entro coordinate sicure.
Ma oggi a destra si rivendica – lo fa con forza, appunto, la Meloni – una unità di visione politica che troverebbe riscontro nel consenso popolare. È ciò che indicano i sondaggi.
Non mi sorprende. È una forma di unità pre-politica, frutto dell’avversione istintiva per il campo opposto: conta la propaganda berlusconiana, benché oramai estenuata, sulla necessità di mettere all’angolo i “comunisti”. Destra e sinistra rimangono categorie del subcosciente collettivo, da una parte per il retaggio di antiche divisioni ideologiche, dall’altro per l’avvelenamento dei pozzi, se così possiamo dire, prodotto da una comunicazione semplificata e aggressiva. Oggi ne scontiamo i difetti e le incongruenze. Comunque, è unita davvero la destra? e in che termini? Forza Italia e Lega sono al governo, Fratelli d’Italia all’opposizione: agli uni spetterebbe il compito di difendere in campagna elettorale l’operato dell’esecutivo, avendone condiviso la sorte e sostenuto l’azione; alla Meloni invece di sbandierare l’alternativa come rottura con esso, per innescare un processo svincolato dall’Agenda Draghi. Con questa contraddizione profonda il successo durerebbe lo spazio di un mattino.
E a sinistra? Il Pd appare in affanno dopo la svolta di Conte. Come resiste la suggestione del “campo largo”?
Non resiste. I fatti smentiscono le illusioni. Sono tra quelli che si attendevano, nel passaggio da Zingaretti a Letta, una maggiore consapevolezza circa l’inagibilità dell’alleanza strategica tra il Pd e il M5S. Mi pare che ora i Democratici debbano reinventare il profilo della coalizione riformatrice. Si parla di “nuovo Ulivo”, ma mi permetto di segnalare che l’Ulivo aveva nella collaborazione dialettica tra PDS e PPI il suo principale punto di forza. Adesso manca proprio quella dialettica. E anche il confronto con Calenda e Renzi risente della perdita di significato del “Centro” giacché, alla luce della storia repubblicana, il “Centro” rimanda alla tradizione popolare e democristiana. Se questa resta fuori dal monitor della politica, diventa più complicato il tentativo di riordinare il quadro delle alleanze, a cominciare dal centro-sinistra. Dovrebbe essere il Pd a favorire, dentro e fuori il circuito di partito, la ripresa di questa incancellabile tradizione di pensiero politico, che attraverso la “memoria del moroteismo” gli appartiene abbondantemente.
Dunque, ci vorrebbe un Pd più…democristiano?
Capisco che può apparire forzato, ma il concetto ha una sua valenza oggettiva. D’altronde lo stesso Letta viene dal mondo cattolico democratico e ha conosciuto la vicenda dello Scudo crociato prima e del Gonfalone poi. Quando parla e quando agisce, si nota che la sua formazione non è improvvisata: lui stesso parla di “maestri” come Andreatta. Tuttavia se della DC resta solo la scorza, ovvero la consumata abilità di comporre e organizzare le cose della politica, allora ci limitiamo a un supporto che interviene nella mera gestione del potere. Non è ciò che serve: questo è un tempo di rinascita, ancorché incerta e faticosa, della politica come visione del futuro.
Intanto il futuro passa attraverso la crisi del governo Draghi. Torniamo dunque alle battute iniziali. Come se ne esce, se ancora esiste, ben inteso, un margine per uscirne? Mi pare un esercizio di predizione che mette a dura prova anche quella “sapientia cordis” democristiana allocata – si spera – in qualche cloud della politica italiana.
Nel Paese cresce la domanda di stabilità. Adesso il governo faccia la sua parte, puntando a mettere sotto controllo le tante emergenze. Non devo elencare i problemi, sono sotto gli occhi di tutti e tutti possono capire, in base alle evidenze, le ragioni ostative del ricorso anticipato alle urne. Moro parlerebbe di tregua. E oggi la Chiesa, in vario modo, consiglia di non far precipitare gli eventi. Nessuno deve forzare la mano, nemmeno chi immagina di organizzare, dopo la sciagurata dissociazione dei 5 Stelle, una sorta di “governo assoluto” impaniato di presunzione contro la legittima e indispensabile funzione dei partiti. A Draghi va garantita lealtà, in cambio deve essere lui, lo stesso Draghi, il primo a riconoscere che l’intransigenza sui principi non esclude la duttilità nelle forme e nei modi di agire, stando alla guida del Paese. Se vogliamo evitare il baratro, dobbiamo mettere da parte gli egoismi di parte e condividere la risorsa del buon senso, per il bene dell’Italia. Senza inseguire nessuno: chi vuole restare fuori, si accomodi. L’elettorato, a tempo debito, saprà giudicare.