Da formiche.net riprendiamo e pubblichiamo un intervento di Giuseppe Fioroni
di Giuseppe Fioroni
Mentre ieri sera Matteo Salvini e Silvio Berlusconi s’incontravano a cena e discutevano di unità e convergenza, finanche in unico partito, i primi dati delle regionali francesi indicavano la netta ripresa dei Repubblicani di matrice gollista a discapito e in contrasto con il Rassemblement National di Marine Le Pen. Il macronismo ha perso smalto. Hanno votato in pochi, appena un terzo degli elettori, ma il messaggio uscito dalle urne appare inequivocabile. Le due destre in Francia si sfidano a viso aperto, perché quella repubblicana non accetta di confondersi con la destra nazional-sovranista. In Italia, invece, regna sovrana l’ambiguità di un’alleanza che travolge ogni necessaria distinzione, dando per scontato che l’obiettivo del potere giustifichi la confusione delle lingue, sempre che si faccia buon uso della suggestione degli slogan.
Al tempo stesso, nelle elezioni amministrative di Roma si mette in scena la proposta assai disinvolta di un’intesa tra chi sta al governo del Paese – Lega e Forza Italia – e chi, come il partito di Giorgia Meloni, se ne resta tenacemente all’opposizione di Draghi. E non stiamo parlando di un piccolo comune, ma della capitale del Paese. Il centrodestra si divide e si unisce a prescindere da un principio di coerenza, come se la pubblica opinione non avesse titolo di stupirsi della diversa modalità di porsi lungo quel chilometro, fisico e simbolico, che porta da Palazzo Chigi a Palazzo Senatorio, in Campidoglio. Si genera un corto circuito ideale pur di accozzare gli sparsi materiali delle convenienze. Non importa quale sia la ragione dello stare insieme, quel che conta è la mistica della forza e in fondo la ricerca dell’utilità marginale.
Non basta? Si può andare oltre, anche alzando il livello dell’analisi. Sul piano europeo è quanto mai palese, infatti, il contributo del centrodestra italiano a direttive assai lontane l’una dall’altra: ogni componente di partito fa storia a sé, collocandosi in raggruppamenti parlamentari diversi, aderendo a famiglie politiche con piattaforme programmatiche finanche opposte, dentro e fuori la cosiddetta “maggioranza Ursula”. Del resto Angela Merkel, leader di una Dc che la Dc italiana considerava di destra, si assume la responsabilità di espellere Orbán e nessuno degli italiani, nemmeno gli aderenti al Ppe, sentono il dovere di associarsi pubblicamente a tale decisione. Anzi! Salvini, oggi partecipe di un governo di larghe intese che affonda le radici nell’europeismo, non disdegna di corteggiarlo. E Berlusconi fa mostra di sprezzare il gesto della Cancelliera, come se non rientrasse nel disegno di un centro alternativo alla destra, tanto da escludere in patria l’eventualità di accordi – anche solo locali – con gli estremisti di Alternative für Deutschland (AfD).
Dunque, emostatizzata la ferita di un partito anti-governativo, indisponibile a collaborare se non per casuali opportunità con un esecutivo di salute pubblica, Berlusconi e Salvini immaginano comunque di restaurare sotto nuove forme l’invincibile armada della destra. Ciò serve a nascondere, per altro, la clamorosa contraddizione di una Lega che gioca in Italia la partita della responsabilità istituzionale e in Europa la contropartita della solidarietà con gli ultra nazionalisti alla Le Pen o alla Orbán. Pertanto, nel 2023 si andrebbe al voto con questa sfavillante riproposizione di tutti gli equivoci e le forzature che nell’ormai lontano 1994 segnarono l’avventura del berlusconismo trionfante. L’unica vera novità, nel magma di un sostanziale continuismo di ordine politico, andrebbe allora individuata nel mutato equilibrio in seno alla coalizione o all’ipotizzato partito unico, con le ricadute sul versante della leadership.
Questa strategia della destra, in sé fallimentare per la stabilità e la credibilità del sistema Paese a causa della sua strutturale doppiezza di visione e di condotta, può essere disabilitata e sconfitta solo se il grande agglomerato dell’elettorato di centro venga messo di fronte a una alternativa plausibile e convincente, proiettando al futuro il credito di fiducia che già ora ha guadagnato e ancor più è destinata a guadagnare l’attuale presidente del Consiglio. Un’alternativa che non passa, evidentemente, per la formula di una sinistra incomprensiva delle ragioni e le sensibilità del centro, una volta asserendo che non esiste e altre che può esistere sì, ma in qualche modo stando a rimorchio, senza identità e funzione propria, come espressione generica di sentimenti più che di motivazioni. D’altronde la rinascita del ceto medio, dentro quella che i democratici d’ispirazione social-cristiana potrebbero chiamare nuova “sintesi popolare”, s’identifica in larga parte con la ricostruzione di un centro democratico, capace di tenere uniti i concetti (e i valori) di comunità e di progresso. Altro che subalternità!
Si tratta di capire se il Pd, in questo scenario caratterizzato dalla necessità di un “partito alla Draghi”, è in grado di raccogliere la sfida. Ci vuole un soprassalto di realismo e concretezza. Per farlo, piaccia o non piaccia a un certo mondo di sinistra, il Pd deve spostarsi al centro o comunque deve stare al centro, senza inseguire il M5S. Altrimenti, trascinato proprio dalla crisi della sinistra, come si registra quasi ovunque in Europa, il suo compito cadrebbe fuori dal perimetro dell’affidabilità. Infatti, qualora al funambolismo della destra si opponesse il funambolismo della sinistra, portando a esaurimento da qui alla fine legislatura la novità rappresentata da Draghi, per dare in pasto alla pubblica opinione l’aggiornamento di un messaggio in stile “gioiosa macchina da guerra”, è più che probabile che vincerebbe il funambolismo più spregiudicato e incontinente: quello della destra.