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Home » Politica » Una storia di autismo e di interruzione della continuità terapeutica

Una storia di autismo e di interruzione della continuità terapeutica

3 Aprile 2021

Carissimi, ieri si celebrava la giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, tanti palloncini blu, tante belle parole, un po’ di retorica. Vi scrivo questa lettera aperta perché voi tutti avete un ruolo (politico, nell’informazione, medico, sociale o assistenziale) nella lotta all’autismo, per raccontare la storia di mio figlio, Leo un bambino autistico grave (non verbale) di quasi undici anni. Una storia paradigmatica di quello che può succedere ai ragazzi autistici e alle loro “sgangherate” famiglie negli altri giorni, quelli in cui non ci sono palloncini blu a tappezzare le città.

Il giorno 23 marzo, la responsabile medico del centro accreditato di Viterbo (Airri Medical) che segue nostro figlio da circa 9 anni ci convoca, senza preavviso. Vado io (mia moglie non può perché sta facendo la dad insieme a Leo). Penso sarà il rinnovo del progetto. E invece no, la dottoressa mi mostra la lettera di dimissioni dal centro di mio figlio, dopo 9 anni. Mio figlio è stato dimesso! Vuol dire che è guarito? No, chi conosce l’autismo sa bene che dall’autismo non si guarisce.

Quel centro non può più fare molto per noi mi dice, tutte le operatrici che seguono Leo da anni (presenti all’incontro) annuiscono come una falange macedone a difesa della loro regina di cuori. Basta, finito, game over, a mio figlio neanche un ciao da quelle operatrici che per lui sono un punto di riferimento, tra le poche figure amiche che scandiscono la sua giornata. “La Asl saprà seguirvi molto meglio di no – mi rassicurano- hanno progetti più adatti”.

E così siamo stati messi alla porta e oggi, in piena pandemia, mio figlio si trova senza alcuna forma di assistenza pubblica.

Sottolineo pubblica, perché quella stessa dottoressa, che pochi giorni fa ha dimesso mio figlio senza neanche un giorno di preavviso, circa 2 anni fa ci “consigliò” di rivolgerci ad un centro privato Aba perché il bambino non faceva progressi, perché aveva bisogno di un intervento più strutturato e il servizio pubblico non può garantire un numero di ore adeguato. Ovviamente così abbiamo fatto, con grande sacrificio e grazie all’aiuto dei nostri familiari, ma ho sempre trovato singolare che tutte le volte che la Asl ci ha riconosciuto “l’estensivo elevato”, il centro accreditato al ciclo successivo ci abbia suggerito (rectius: imposto) di ridurlo.

Aggiungo che la pandemia non ci ha risparmiato: Leo ha contratto il Covid a scuola e poi ci siamo contagiati tutti. Quasi due mesi di isolamento. Ovviamente senza assistenza. Dopodiché abbiamo preferito (grazie all’aiuto della scuola Marconi e del Comune di Vetralla che ringrazio) proseguire in dad, per difendere Leo e anche i suoi compagni (Leo infatti non ha le capacità cognitive e di auto-controllo per seguire i protocolli di distanziamento e quindi può facilmente contagiarsi e inconsapevolmente contagiare gli altri).

Stiamo vivendo un periodo molto duro, mia moglie tutti i giorni si alza e fa la dad insieme a Leo e all’assistente alla comunicazione mentre l’insegante di sostegno è dall’altra parte dello schermo. In breve “un lavorone”, in cui tutti (scuola, servizi sociali e assistenti forniti dal Comune) stanno mettendo il cuore e che sta dando ottimi risultati.

Queste dimissioni cadono quindi come un fulmine in un cielo tutt’altro che sereno.

Quello che mi chiedo e chiedo a voi è: come è possibile che in piena pandemia, in un momento delicato per tutti, ma soprattutto per i disabili e le loro famiglie, nel quale si sono bloccati i licenziamenti, le cartelle, gli sfratti, possa interrompersi  un programma riabilitativo, privando un bambino della continuità assistenziale e soprattutto della continuità nei terapisti di riferimento?

Che fine ha fatto l’obbligo di assicurare la continuità terapeutica richiamata da tante pronunce dei giudici amministrativi e ordinari in questi anni? Che fine hanno fatto “i distensivi equilibri di cura e di continuità terapeutica”? che fine ha fatto l’obbligo di presa in carico totale senza soluzioni di continuità? Che fine ha fatto l’importanza della continuità delle figure professionali di riferimento?  Possibile che chi ha firmato le dimissioni di mio figlio non conosca questi obblighi o non si sia solamente posta questi problemi?

Io non so dire se ciò sia corretto sotto un profilo medico, ma certamente mi sembra che, in un contesto emergenziale come quello che stiamo vivendo, queste dimissioni siano frettolose, umanamente poco riguardose, eticamente discutibili e assolutamente improvvide. Ho come la sensazione che mio figlio sia un pacco smistato da un ufficio ad un altro, ma mio figlio non è un pacco, è un magnifico essere umano, con una sua interiorità e una incredibile complessità affettiva e meriterebbe almeno un ciao da chi lo ha seguito per tanti anni, persone alle quali (se potesse parlare) direbbe certamente grazie.

Ieri ho incontrato la Asl (che di tutto ciò sapeva poco). Mi dicono che ci sono dei progetti nel quale mio figlio sarà inserito. In verità di mio figlio sanno poco (il centro accreditato non ha ancora trasmesso alcunché). Sebbene il dirigente medico abbia cercato di rassicurarmi mi ha confessato che serviranno non meno di quattro settimane per partire. Vi rendete conto?

A mio figlio aspetta un nuovo salto nel buio, le dimissioni con effetto immediato, il nuovo progetto neppure esiste…

Mi auguro che la Asl garantisca a mio figlio un numero di ore coerente con il suo livello di disabilità, un programma per quantità e qualità adeguato alle linee guida in materia e alle tante pronunce dei Tar e dei giudici del lavoro in materia, altrimenti a mio figlio non rimarrà che rivolgersi ad un giudice (come abbiamo già fatto o diffidato in passato più volte) e il sottoscritto, come avvocato, lo assisterà con il massimo scrupolo, perché – come gli dico sempre – è il mio miglior cliente e perché bisogna lottare per cambiare questi “bug” del sistema.

Scrivo questa lettera proprio per rafforzare la “consapevolezza dell’autismo”, con l’augurio che altre famiglie, meno forti della mia, che non hanno la possibilità di ricorrere ad un giudice, o di raddoppiare le ore di Aba private per coprire un buco di assistenza pubblica, possano subire trattamenti di questo genere. 

Per lottare contro l’autismo serve anche statura morale interiore, consapevolezza della enorme fragilità delle nostre famiglie, e la storia che vi ho raccontato insegna come queste cose non si insegnino all’università o nei costosissimi master Aba.

Dario De Vitofranceschi

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