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Home » Italia » Il “cold case” Aldo Moro. Caccia al Dna dei 7 che mancano all’appello

Il “cold case” Aldo Moro. Caccia al Dna dei 7 che mancano all’appello

16 Marzo 2021

Da HuffingtonPost.it riprendiamo e pubblichiamo l’articolo di Maria Antonietta Calabrò sui nuovi sviluppi del “Caso Moro”

Il caso Moro, per sempre. A 43 anni dal rapimento dello statista democristiano, il gip romano Francesco Patrone ha autorizzato la richiesta di prelievo del Dna (avanzata dal pm Eugenio Albamonte) per alcuni brigatisti già condannati per il sequestro del dirigente democristiano, ma anche per alcuni militanti delle Br finora considerati estranei all’agguato di via Fani. Il prelievo del Dna è avvenuto a fine febbraio 2021 nei locali della Questura di Roma, ed è stato coattivo visto che molti brigatisti non avevano voluto sottoporvisi volontariamente.

Si tratta infatti di comparare il loro profilo genetico con quello portato alla luce, nel 2016, sui mozziconi di sigaretta rinvenuti nell’abitacolo della Fiat con targa Corpo Diplomatico che servì a “bloccare” la vettura di Moro in Via Fani, e sui mozziconi repertati nel covo di via Gradoli (la centrale operativa del sequestro Moro).

Fu il capo dell’Antiterrorismo Lamberto Giannini, da pochi giorni nuovo capo della Polizia di Stato, a mettere in evidenza alla seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso, presieduta da Giuseppe Fioroni, la possibilità di procedere con nuove analisi scientifiche che nel 1978 non erano possibili.

Ma la prova del DNA è stata possibile solo ora (nell’ambito delle nuove indagini avviate a fine 2018 da Piazzale Clodio dopo aver ricevuto lo stralcio dei documenti di San Macuto), visto che prima non c’era il consenso degli interessati, e si è dovuto procedere con decisione del gip.

L’ipotesi investigativa è che ci potrebbero riscontrare presenze diverse da quelle finora conosciute sulla scena del rapimento e in via Gradoli. Visto che ad esempio su 38 tracce biologiche rinvenute, solo 20 sono state attribuite, e con certezza, al proprietario dell’auto (che era stata rubata dalle Br per usarla nel sequestro) e ai suoi familiari, mentre altri 7 profili genetici trovati all’interno dell’abitacolo del Fiat giardinetta, condotta da Mario Moretti e che la mattina del 16 marzo 1978 bloccò allo stop con via Stresa la Fiat 130 su cui viaggiava lo statista democristiano e l’alfetta della scorta, sono ancora sconosciuti.

Uomo 4 ha lasciato tre tracce genetiche e così uomo 7, mentre Uomo 1 ne ha lasciare due. Quattro tracce non sono conclusive e due sono miste per Uomo 4 e Uomo 2. Le rimanenti tracce appartengono ad altri quattro uomini rimasti finora ignoti. In particolare si cerca di dare un volto e un nome alla presenza di un personaggio che si sarebbe trovato accanto a Moretti al momento dell’agguato, e a chi abbia avuto a che fare con la macchina ( per rubarla, spostarla , nasconderla) e a chi abbia frequentato il covo di via Gradoli.

Secondo quanto ricostruito dalla Commissione Moro2 infatti (in base a testimonianze acquisite solo dopo il 2015 e agli esami balistici della Polizia scientifica sulle traiettorie dei proiettili sparati nel corso dell’agguato) i terroristi in via Fani erano almeno venti, e non dodici come hanno riferito i brigatisti durante i cinque processi Moro.

Il 21 marzo 1978, del resto, cioè cinque giorni dopo il sequestro, un testimone oculare (un ragazzo di quindici anni) vide un pulmino Hanomag-Henschel giallo con tetto bianco con targa tedesca e una Mercedes (color caffellatte) risalire la penisola verso il Nord. A bordo, in tutto sette persone: due nel pulmino, quattro uomini ed una donna nell’auto.

Il testimone fu ascoltato a più riprese nel corso 1978, ma “la pista tedesca” non fu seguita dagli inquirenti, come ha ammesso davanti alla Commissione il prefetto Ansuino Andreassi (deceduto a gennaio 2021), concentrati sulla ricerca dell’ostaggio.

In base a successivi accertamenti dell’Interpol e della polizia tedesca, si è anche accertato che due persone, un uomo e una donna, che avevano avuto a che fare con quel pulmino, erano membri della RAF (le BR tedesche) e la donna era anche in possesso di una carta d’identità italiana falsa, appartenente ad uno stock rubato in bianco, nella disponibilità delle BR in via Gradoli, e nell’appartamento di Giuliana Conforto, figlia di “Dario”, il principale agente del Kgb in Italia già dai tempi del fascismo , in cui trovarono rifugio i due brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci e fu sequestrata anche la mitraglietta Skorpion che uccise Moro, il 9 maggio 1978.

Il cosiddetto Memoriale Morucci (scritto da Morucci con la “supervisione“ del servizio segreto interno Sisde, alla base della ricostruzione giudiziaria del sequestro Moro, ritenuta insufficiente dai giudici nelle motivazioni delle sentenze di Corte d’assise) ha “cancellato” dalla scena del sequestro proprio alcuni componenti del commando di via Fani, alcuni certamente di nazionalità tedesca, appartenenti alla Rote Armee Frackion, un gruppo terroristico controllato dalla Stasi (servizio segreto dell’allora Ddr, la Germania dell’Est).

Furono invece questi elementi del commando probabilmente a portare sul campo la loro capacità militare e le armi migliori (che subito dopo ripresero la strada per la Germania). I terroristi tedeschi sono stati identificati dagli inquirenti del loro Paese. Abu Bassam Sharif, capo per decenni del FPLP ha testimoniato nel giugno 2017 che “chi ha sparato in via Fani non sono certamente quegli straccioni delle Brigate rosse”, perché “ io che ne capisco di queste cose… vi dico che anche l’umidità incide sulla traiettoria” ed era difficilissimo sparare a via Fani, in quelle circostanze , senza colpire Moro.

I profili genetici sui mozziconi di sigaretta rinvenuti nell’auto di via Fani, non ancora attribuiti, serviranno a verificare l’identità di persone che sono tutte di sesso maschile. Mentre quelli relativi al covo di Via Gradoli (dove testimonianze recenti hanno messo in evidenza la presenza di un uomo e una donna che non parlavano italiano, che rientravano in quello stabile in moto e sempre con il casco integrale calzato) sono di due donne e di due uomini.

Secondo la ricostruzione “ufficiale” del sequestro Moro, via Gradoli sarebbe stata la base logistica frequentata dai soli Mario Moretti e Barbara Balzerani. Le analisi delle impronte digitali ritrovate dopo quarant’anni hanno già messo in evidenza su uno stivale di gomma un’impronta riconducibile a Adriana Faranda. Mentre nessuna impronta digitale è stata ricondotta dalle analisi ad Aldo Moro. In quel covo inoltre sono state trovati i profili biologici misti di due uomini e due donne su cui sono in corso adesso gli accertamenti scientifici.

Dimostrare la “presenza sul campo” di terroristi della RAF, porterebbe una prova in più non tanto e non solo quanto ai collegamenti internazionali delle BR, ma soprattutto l’ intervento decisivo della RAF nella “operazione Fritz” nome dato da Morucci al sequestro Moro ( l’appunto intitolato “Fritz “fu trovato in via Gradoli, appartamento di proprietà di un’amica-conoscente di Giuliana Conforto). E quindi, insieme a decine di fatti e testimonianze, potrà sostanziare la ricostruzione del sequestro e l’assassinio dello statista Dc come la più grande operazione mai messa in piedi durante la Guerra Fredda. Al tempo stesso si chiarirebbero i motivi per cui il Muro di Berlino si è trasformato in Italia in un Muro di specchi capace di occultare per oltre quarant’anni la verità sul caso Moro e l‘influenza sovietica all’interno di uno dei più’ importanti paesi della Nato.

Tra i brigatisti o parenti di brigatisti che si erano rifiutati di sottoporsi all’esame del Dna, lo stesso Mario Moretti e il fratello dell’unico latitante delle BR per il caso Moro, Alessio Casimirri, figlio dell’ex numero due della Sala stampa vaticana sotto tre Papi, ancor oggi riparato in Nicaragua, sotto la protezione del presidente Ortega, dove arrivò dall’inizio degli anni Ottanta, e che non ha mai scontato un giorno di carcere nonostante la condanna a sei ergastoli.

Del resto, Il figlio di Licio Gelli maestro venerabile della Loggia P2 – i cui elenchi furono scoperti dalla magistratura il 17 marzo di quarant’anni fa, e cui appartenevano i vertici dei servizi segreti durante il sequestro Moro – (Maurizio) e suo nipote (Licio jr ), sono stati entrambi ambasciatori del Nicaragua di Ortega, in Sudamerica, in Canada e in Svizzera. L’8 ottobre 2020 una risoluzione del Parlamento europeo ha chiesto per la seconda volta per l’estradizione dal Nicaragua di Casimirri, dopo la prima del 14 marzo 2019, sollecitata anche dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una decisione su cui l’attuale ambasciatore italiano in Nicaragua, Amedeo Trambajolo, ha preferito non commentare.

Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, per molti aspetti, si dimostra, insomma, ancora un “cold case”, visto che quello che ne sappiamo è in gran parte frutto di una “verità concordata“ tra brigatisti ed apparati dello Stato, prima della caduta del Muro di Berlino. Una verità “accettabile” che lasciasse fuori dai riflettori dell’opinione pubblica altre verità troppo grandi, in quel determinato contesto geopolitico. Né deve essere di ostacolo a questa ricerca il tempo che è passato. Non si tratta soltanto di permettere una affidabile ricostruzione storica. Il reato di strage (e questo avvenne in via Fani) per il nostro codice penale non si prescrive.

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