Commemorare Aldo Moro è un compito impegnativo. La sua figura è infatti centrale in tutta la storia dell’Italia repubblicana, dalla Costituente fino al suo tragico assassinio. La sua riflessione sui fondamenti della nostra democrazia e il suo progetto di uno Stato pluralista e centrato sull’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione costituiscono un lascito di idee ancora attuale, specie in una fase in cui è all’ordine del giorno la revisione del nostro assetto costituzionale.
La biografia di Moro si intreccia profondamente con la storia dell’Italia repubblicana sin dal 1946, quando, giovane professore di diritto penale e esponente di rilievo della democrazia cristiana pugliese e della Fuci, fu eletto alla Costituente.
L’esperienza alla Costituente è centrale per la biografia di Moro e per comprendere la sua azione politica successiva. E’ infatti alla Costituente che Moro sviluppa una sua visione di lungo periodo, che intende orientare le energie del Paese alla realizzazione del progetto di Stato democratico e sociale delineato nella prima parte della Costituzione. Alla Costituente, Moro si rende inoltre conto che questo obiettivo non potrà essere raggiunto attraverso posizioni radicali o di testimonianza ma solo aggregando intorno ad esso le più ampie componenti sociali e politiche. Egli sviluppa quindi una visione politica, per nulla debole o compromissoria, centrata sull’aggregazione attorno a principi e programmi del più vasto consenso politico e sociale, per il tramite dei grandi soggetti collettivi. La riproporrà in seguito, sia negli anni della transizione dal Centrismo al Centro-Sinistra sia nella drammatica crisi degli anni ’70, che Moro cercò di governare e indirizzare a un esito positivo, finendo per sacrificarvi la vita.
Il contributo di Moro alla scrittura della Costituzione è stato di grande rilievo, sia nella Commissione dei 75 sia in Assemblea. I suoi interventi alla Costituente hanno una sorprendente attualità, perché riguardano quasi sempre il profilo generale della Costituzione e i valori ad essa sottostanti.
Particolarmente importante è sotto questo punto di vista l’intervento che Moro svolse il 13 marzo 1947 sui principi generali della Costituzione (articoli 1, 2 e 3). In questo discorso Moro prese posizione a favore di una Costituzione fondata su un quadro comune di valori, emersi dalla lotta al fascismo, una Costituzione – per usare le sue parole – fondata «sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri». Per Moro il tema dei principi fondamentali rimase sempre centrale. Nella sua visione essi non sono enunciazioni ideali. Sono norme che vincolano l’azione del legislatore e per questo motivo vanno sottratte – cito ancora – «all’effimero giuoco di alcune semplici maggioranze parlamentari». Coerentemente con tale impostazione, Moro ritiene in maniera veramente moderna che la Costituzione debba avere un carattere processuale, stabilendo le condizioni per lo sviluppo dei diritti ma respingendo la tentazione di cristallizzare le dinamiche della società.
Si potrebbero citare molti altri interventi, ma in questa sede è forse più importante insistere sulla prospettiva generale del pensiero di Moro. Quello a cui Moro pensa è uno “Stato di popolo” nel quale la persona e le formazioni sociali contribuiscono allo sviluppo dello Stato ma sono tutelate da qualunque strumentalizzazione. Centrale rimane infatti l’idea di “dignità dell’individuo”.
Si colloca in questo ambito anche la concezione morotea del partito, che pure appare moderna e precorritrice. Moro è uno dei “padri” dell’articolo 49 della Costituzione sul diritto di associarsi in partiti “con metodo democratico”. Nel suo intervento del 22 maggio 1947 egli sostenne questo principio, rifiutando però la tesi di un sindacato sulle finalità dei partiti stessi. Il punto era per lui molto chiaro: «se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese».
I motivi che emergono nella fase costituente si ritrovano nella successiva attività politica di Moro, che si aprì a un riformismo orientato in senso sociale. Culmine di tale riformismo è il passaggio dal centrismo al centro-sinistra, che Moro guidò prima come segretario della Democrazia cristiana e poi come Presidente del Consiglio. Questa fase è stata spesso letta come un’occasione mancata – quale in parte fu – attribuendo talora a Moro la responsabilità di aver frenato le proposte riformiste più avanzate. Sembra però più giusto sottolineare la grande capacità di Moro di frenare le spinte più conservatrici (Sifar) e di guidare la Democrazia cristiana a una prospettiva nuova, senza venire meno a una regola centrale della sua deontologia politica, quella cioè di non prescindere mai dall’unità del partito.
Il bilancio dell’azione di Moro non può dunque essere valutato in maniera riduttiva. Oltre a conseguire il risultato politico di aver condotto il partito socialista dentro una prospettiva di governo e a realizzare la nazionalizzazione dell’energia elettrica, Moro diede un respiro nuovo alla democrazia italiana, sia sul piano interno che internazionale e pose le basi di riforme fondamentali, poi approvate nei primi anni ’70, come lo statuto dei lavoratori e l’ordinamento regionale, e soprattutto contribuì in maniera determinante all’approvazione del dpr 616, la “Bibbia delle autonomie” fino all’approvazione della legge 142 del 1990. In un mirabile articolo sul “Giorno” del 1977 confrontandosi con Massimo Severo Giannini sostenne con forza un modello istituzionale alternativo a quello piramidale, che relegava i comuni ad un ruolo subalterno rispetto alle regioni, facendo passare quel modello orizzontale di pari dignità delle istituzioni con differenti compiti e funzioni tra Stato, Regioni e Comuni.
In questo ambito vorrei ricordare almeno la grande riforma della scuola media unica, ma anche l’apporto determinante che diede alla piena alfabetizzazione del popolo italiano come fondamento della giustizia sociale tramite il servizio pubblico radiotelevisivo e la trasmissione “Non è mai troppo tardi” del maestro Alberto Manzi. E’ una riforma che si colloca lungo una linea che Moro aveva già sviluppato alla Costituente, quando aveva affermato i principi dell’istruzione come diritto soggettivo, propugnando come scelta di vera pluralità la libertà di educazione e quindi la valorizzazione delle iniziative educative e scolastiche della società civile, e poi nuovamente alla fine degli anni Cinquanta, quando, da Ministro dell’Istruzione, introdusse l’educazione civica nella secondaria e elaborò un Piano decennale per l’istruzione, diretto a rendere effettivo il diritto alla scuola con nuovi edifici, borse di studio, assistenza.
Conclusa nel 1968 l’esperienza di governo, Moro fu quasi ininterrottamente ministro degli Esteri dall’agosto 1969 al novembre 1974. Anche questa pagina non è affatto secondaria. L’approccio di Moro traduceva in concreta azione politica il patrimonio proprio della cultura cattolica, in particolare riguardo al tema della pace e della solidarietà tra i popoli. Senza mettere in discussione il quadro atlantico, egli valorizzò il ruolo dell’Italia nella dimensione europea e nel quadro della politica di distensione, cercando di potenziare il ruolo dell’ONU ed interpretando i rapporti internazionali in termini di rapporti tra popoli.
Moro espresse la sua visione della politica internazionale in un famoso discorso all’Assemblea generale dell’ONU (6 ottobre 1971). Qui egli espresse una decisa opzione in favore della cooperazione e del multilateralismo. Come disse: «Tutti e ciascuno sono chiamati a cooperare nella lotta dell’umanità intera per la sopravvivenza, la dignità, la libertà ed il benessere. Né si può certo più ammettere che esistono ancora popoli che facciano la storia e altri che la subiscano: la coscienza democratica del mondo vi si oppone».
Come spesso accade nell’opera di Moro – e anche questo è un insegnamento per tutti noi – questi grandi principi ideali si calavano in una dimensione concretamente politica che, nei primi anni ’70 aveva per orizzonte l’Europa e il Mediterraneo, due realtà che Moro vedeva come intimamente connesse, in quanto, come disse al Senato il 6 dicembre 1973, «nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa o nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo». Con gli accordi di Helsinki del luglio-agosto 1975, Moro riuscì a affermare il tema dell’interdipendenza tra l’Europa continentale e il Mediterraneo e da qui iniziò a sviluppare una forte cooperazione allo sviluppo con l’Africa e il Medio Oriente. Avvertiva già allora la necessità di operare con la solidarietà e la cooperazione in termini di prevenzione, per il dramma dell’immigrazione che stiamo vivendo oggi.
Ma soprattutto, nei primi anni ’70 Moro riuscì a promuovere, su basi nuove, un rilancio dell’integrazione europea, in una situazione politicamente molto difficile, dopo la guerra del Kippur e la crisi energetica. Fulcro di questo rilancio dell’Europa fu il rafforzamento e la “democratizzazione” dell’Europa comunitaria. Da Ministro degli Esteri e poi da Presidente del Consiglio Moro seppe convincere i partner a avviare un processo di riforma che culminò nel Consiglio Europeo di Roma del 1-2 dicembre 1975, che approvò all’unanimità la riforma del Parlamento, fissando le prime elezioni europee a suffragio universale.
Anche in questi ambiti si può cogliere l’attualità della riflessione di Moro. Se le recenti vicende del Mediterraneo e l’emergenza umanitaria hanno riproposto con drammaticità il tema della cooperazione con il Nord Africa e il Medio Oriente, è pure aperta la grande questione di dotare l’Unione europea di istituzioni che – come disse Moro nel discorso del 12 marzo 1971 – «debbono essere tali da permettere alle nazioni europee di agire con rafforzata efficienza ed energia per partecipare più intensamente alla vita del mondo, al progresso ed alla pace».
Confrontandosi con le grandi questioni della politica internazionale Moro sviluppò una riflessione complessiva sulle trasformazioni degli anni ’70 ed elaborò una nuova prospettiva per una democrazia italiana che gli appariva gravemente minacciata.
Più di ogni altro politico contemporaneo Moro colse la gravità di una crisi che, nella sua visione, era innanzi tutto una crisi morale, che investiva la società, frammentata e produttrice di violenza diffusa, e distruggeva l’autorevolezza dello Stato e dei soggetti collettivi, primi fra tutti i partiti. Moro colse subito i segni dei tempi in una visione profetica.
Come disse presentando il suo quarto Governo (2 dicembre 1974): «C’è una sproporzione, una disarmonia, una incoerenza tra società civile, ricca di molteplici espressioni ed articolazioni, e società politica, tra l’insieme delle esigenze, nel loro modo naturale ed immediato di manifestarsi, ed il sistema apprestato per farvi fronte e soddisfarle. Le aspirazioni dei cittadini emergono e si affermano più velocemente che il formarsi delle risorse economiche e il perfezionarsi degli strumenti legislativi». Di qui nasceva la necessità, drammaticamente avvertita, di «presidiare in queste condizioni il regime di libertà e renderlo stabile e fecondo».
La proposta di Moro fu un avanzato progetto di rifondazione della democrazia parlamentare attraverso il recupero di un forte rapporto tra i soggetti politici collettivi e nella loro relazione con una società che stava vivendo una tumultuosa e drammatica trasformazione economica, sociale e culturale. Nella sua visione, l’Italia era, come disse presentando alle Camere il suo Governo il 3 dicembre 1974, una «democrazia difficile» soprattutto per la grande distanza che separava tra di loro le principali culture politiche e impediva – uso ancora le sue parole – «un vero e continuo succedersi di forze politiche nella gestione del potere».
Nella sua visione l’incontro tra democristiani e comunisti, che non doveva necessariamente escludere altre forze politiche, non era un “compromesso storico” inteso come risposta emergenziale a una crisi e tanto meno una forma di arroccamento consociativo stabile. Era un processo più profondo, che implicava una trasformazione dei partiti che avrebbe consentito di superare i vincoli internazionali rivolti contro il Partito comunista e di dare ai partiti un nuovo ruolo.
Moro insisteva in particolare su due elementi. In primo luogo, la necessità che la DC si liberasse dell’idea di essere partito di governo senza alternative e conseguentemente eliminasse gli aspetti deteriori dell’identificazione con strutture statali e burocratiche che andavano profondamente riformate. Una DC, che gestisce solamente il potere, seduta senza accettare la sfida del nuovo e del rinnovamento.
In secondo luogo a Moro appariva necessario che la piena legittimazione del PCI attraverso il suo ingresso nella maggioranza non fosse una confusa alleanza strategica ma piuttosto la premessa per una radicale trasformazione di quel partito, che rendesse obsoleto il vincolo esterno dato dal suo rapporto con l’Unione sovietica. La legittimazione del PCI era infatti una questione di portata internazionale. Spettava al PCI portare a compimento il suo percorso d’autonomia avviato con l’eurocomunismo. Insomma, Moro avvertiva il rischio di un profondo scollamento tra cittadini e politica. Una Democrazia cristiana in lento deterioramento politico ed etico ed un Partito comunista con molti consensi e senza possibilità di governare, eroso costantemente dall’autonomia e dal forte disagio sociale.
La prospettiva di Moro era quella di una democrazia integrale, dell’alternanza, competitiva e plurale, non ovviamente quella di un bipolarismo conflittuale. Pur consapevole dell’importanza della dimensione istituzionale, Moro diede la priorità a un rinnovamento dei partiti, ritenendo che questa sola avrebbe consentito di dare sostanza a una trasformazione del sistema politico-istituzionale. Il grande progetto di Moro trovò numerose opposizioni, che non furono estranee al dramma del suo assassinio, sia nella dimensione internazionale, dove si stavano manifestando gli inizi di una nuova “guerra fredda” sia nelle non poche forze interne al Paese che operavano per una fuoriuscita dal quadro della Costituzione repubblicana.
Il rapimento e l’assassinio di Moro segnarono una discontinuità irreversibile, perché privarono la politica italiana del più avanzato progetto di rifondazione del sistema politico e crearono nel Paese un autentico trauma. Con la morte di Moro finì la fase della Repubblica fondata sulla Costituente ed è iniziato un lungo periodo di transizione che stiamo vivendo ancora oggi. Tutto questo per l’incapacità di ideare e costruire quel progetto di società e di Paese che Moro aveva intuito diventandone l’architrave portante della costruzione.
Il dramma dei 55 giorni ha infatti messo in luce i germi di autodistruzione presenti nella società italiana e, soprattutto, ha lasciato una scia di dubbi sull’azione di istituzioni e apparati, sulle responsabilità, sulle connivenze, sulla dimensione internazionale della vicenda Moro. La verità giudiziaria affermatasi tra gli anni ’80 e i primi anni ’90 appare ancora parziale, perché fondata prevalentemente sulle incomplete ammissioni di alcuni dei responsabili materiali dell’omicidio. Da allora sono però emersi numerosi elementi nuovi che rimandano al ruolo degli attori della politica internazionale (i blocchi occidentale, sovietico e dell’Est, i movimenti terroristici europei e mediorientali) e alle modalità in cui le forze politiche italiane scelsero di affrontare e chiudere precipitosamente la stagione del terrorismo.
La vicenda è stata al centro di un’inchiesta parlamentare che si è svolta in un quadro politico libero dalle contrapposizioni ereditate dalla guerra fredda. Sarebbe stato grave non cogliere questa occasione di chiudere fino in fondo i conti con i misteri del caso Moro e di riaprire un dibattito complessivo sulla sua figura di statista, chiudendo così l’ultima pagina del vecchio libro della Repubblica e iniziando finalmente a scrivere, dopo 38 anni, la prima pagina della nuova Repubblica.
Il Presidente Mattarella ha ricordato che occorre guardarsi dal rischio di “attualizzare” Moro, decontestualizzandolo dal suo tempo. Allo stesso tempo, però, come ho cercato di sottolineare, rimane viva e feconda la visione di Moro, la sua aspirazione a ricercare l’unità di fondo attorno a un progetto di sviluppo della società italiana radicato nei principi fondamentali della Costituzione e da realizzare attraverso un continuo apporto di idee e di energie mediato dalle formazioni sociali e dai soggetti politici collettivi. Questo progetto pluralista e solidarista costituisce anche oggi, ritengo, una risposta politicamente alta alla crisi di legittimità che investe le istituzioni e le forze politiche in una fase di crisi economica e di trasformazioni globali.
Questo è il servizio che Aldo Moro con il suo pensiero e la sua testimonianza ancora una volta danno all’Italia.