Dal sito succedeoggi.it proponiamo un articolo di Filippo La Porta.
Una democrazia funziona non solo e non tanto se esistono certe regole, quanto se esiste un popolo capace di rispettarle: riflessioni in margine ai cent’anni del Partito Popolare
In questo periodo mi è capitato di discorrere con vari amici e conoscenti cattolici, oggi orfani di un partito che li rappresenti, a proposito del centenario della nascita del Partito Popolare. E, conseguentemente, della opportunità di ricostituire un partito cattolico nel nostro presente, in un contesto sociale e politico profondamente modificato, con la ulteriore secolarizzazione della cultura quotidiana e con un peso ridimensionato della chiesa cattolica. Nel 1919 don Sturzo volle promuovere, dopo anni di divieto da parte della Santa Sede poi cancellato da Benedetto XV (il famoso “non éxpedit”), la partecipazione dei cattolici alla vita politica. E così creò un partito aconfessionale “di cattolici” e non “dei cattolici”, che alle elezioni ebbe subito un buon piazzamento (e che dopo lo scioglimento durante il fascismo, e nell’immediato secondo dopoguerra, si travasò nella neonata Democrazia Cristiana, a orientamento però più decisamente statalista). Dunque nessun integralismo, nessuna pretesa di monopolio. Ciò che si intende rappresentare è un’area cattolico-liberale, che condivide alcuni valori precisi, che vanno dalla solidarietà sociale all’impresa responsabile, dalla libertà religiosa al decentramento, da una scuola non interamente pubblica alla famiglia. Il Manifesto redatto dalla commissione del Partito Popolare si intitolava Appello ai liberi e forti, ispirato appunto da don Sturzo, e si sforzava di riassorbire elementi liberali e perfino socialisti in una dottrina sociale della chiesa che conteneva elementi coraggiosamente innovativi (sulla donna, sul sindacato, etc. ). Ora, se leggiamo con attenzione l’appello scopriamo che è l’esatto contrario del populismo. Si rivolge infatti non al “popolo” dei sondaggi e dei talk televisivi (volubile, emotivo, gregario), ma al “popolo” consapevole, istruito, responsabile che si esprime nei corpi intermedi, nelle comunità territoriali e in quell’associazionismo che era per Tocqueville l’anima della democrazia. Se vogliamo, il suo è un “popolo” ideale, che probabilmente in Italia non è mai esistito compiutamente, ma che può valere come un mito civile capace di ispirare il nostro agire politico.
Per una lettura corretta di questi eventi, e per ricostruire un importante capitolo della storia delle idee e della politica nel nostro paese, suggerisco la lettura di libro scritto a quattro mani: Elogio dei liberi e forti, di Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni, Giapeto Editore.
Si parte dalla preistoria del Partito Popolare. Nella prima parte Lucio D’Ubaldo si impegna a ricostruire una sorta di genealogia della Democrazia Cristiana, a partire dalla prima cellula ottocentesca, quel Tocqueville – prima citato – che auspica l’incontro tra cristianesimo e democrazia liberale, mentre nello stesso periodo De Maistre rappresentò la versione reazionaria del cristianesimo. Di lì attraverso la Rerum Novarum di Leone XIII, i romanzi di Fogazzaro, il modernismo, l’esperienza politica di Murri (un partito autonomo dei cattolici, l’Opera dei Congressi, più vicina ai socialisti che ai liberali, nata nel 1974 e sciolta dalla chiesa nel 1904 perché avrebbe potuto mettere in discussione le basi dogmatiche della fede), don Sturzo (fonda, come abbiamo visto, nel 1919 il Partito Polare, ma nel 1923 il papa lo obbliga alle dimissioni da segretario), e fino a Moro, si delinea un filone cattolico capace di elaborare un pensiero sociale e di indicare i valori del solidarismo, della collaborazione tra le classi, di un capitalismo corretto dallo stato in quanto di per sé amorale. In particolare, la svolta vera avvenne con Murri che assume il Risorgimento come principio sano, nonostante Porta Pia. Secondo lui, il Risorgimento avrebbe tradito le proprie premesse, e cioè l’ansia religiosa e l’aspirazione etica contenute nella predicazione mazziniana, poiché prevalse l’arido realismo di Cavour. I cattolici dovevano dunque, per parafrasare un celebre ragionamento marxista, raccogliere le bandiere del liberalismo cadute nel fango, e dunque badare alla educazione morale e politica degli italiani.
Poi Murri, secondo D’Ubaldo, fallirà nel suo proposito di creare il partito dei cattolici e di riformare la vita politica degli italiani, perché aveva una mentalità “impolitica”. Il Partito Popolare, nel 1919, intende presentarsi nella politica con «la nostra bandiera morale e sociale, ispirandoci ai saldi principi del Cristianesimo». Sturzo, benché più pragmatico di Murri, insiste sulla concezione “spiritualista” che caratterizza il partito dei cattolici, sullo spirito religioso che torni ad animare le coscienze, soprattutto dopo la catastrofe della Grande Guerra. E alla sua prima elezione il Partito Popolare grazie alla sua coerenza elesse un centinaio di deputati e negli anni fino allo scioglimento da parte di Mussolini (1926) ottenne vari risultati (riforma proporzionale, esame di stato, legislazione sul lavoro, patti agrari), in nome di un “riformismo messianico” che si riverbera nell’Appello del 1919, e insistendo sulla “diversità” dei cattolici in politica (che, almeno sulla carta, dovrebbero avere un di più di integrità e idealità, «di fronte al bizantinismo degli altri partiti», secondo le parole di Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI).
Nella seconda parte del libro Giuseppe Fioroni precisa il senso della moralità cristiana, aperta all’idealità ma impastata di realismo, dunque: capacità di ascolto, ricerca di un consenso vasto, sforzo a comporre equilibri. E soprattutto esorta tutti quanti, non solo i cattolici, a riflettere sul popolarismo sturziano, rilanciando la solidarietà tra le forze politiche responsabili, ricostruendo un sistema di alleanze, non rinunciando al Welfare europeo («orgoglio di questa parte del mondo»). E riprende un discorso di Moro che invita ad andare oltre il dissenso, nel nome di Sturzo e della sua ispirazione riformatrice, sempre rivolta al bene comune e alla equità sociale. Ad una «politica più umana».
A queste importanti riflessioni vorrei solo rivolgere alcuni interrogativi, che spero non siano del tutto oziosi.
1) Murri voleva nientemeno che evangelizzare la democrazia. Introdurre cioè in quella che è una tecnica di governo (tale secondo l’idea procedurale di Norberto Bobbio) un elemento etico, un richiamo alla fraternità (il principio – di origine evangelica – più disatteso della Rivoluzione Francese). La definizione procedurale è insomma una definizione minima, necessaria ma non sufficiente. Quelle regole possono infatti convivere con forti disuguaglianze e con la creazione di poteri invisibili, di tipo oligarchico. Poi, la democrazia dovrà infatti impegnarsi a realizzare una uguaglianza non solo formale ma sostanziale (l’articolo 3 della Costituzione), dato che la sua anima è l’egualitarismo. Ora, una democrazia funziona non solo e non tanto se esistono certe regole, quanto se esiste un tipo umano capace di rispettarle, dunque proprio i “liberi e forti” qui evocati. Il popolo è bue, e omologato, quando partecipa alla “piazza” (fisica o mediatica), non quando è un popolo istruito e riflessivo. Dove e come si forma questo popolo? Probabilmente dentro le esperienze di base, le buone pratiche, i contropoteri, la cooperazione spontanea, le azioni micro sociali. Lo stesso Giuseppe De Rita parlava recentemente di un recupero della tradizione che nascesse dal basso.
2) Si parla appunto di evangelizzare la democrazia, di cristianizzare la società (un “vasto compito” e un’aspirazione che risale a Manzoni). Mi chiedo però: in un mondo sempre più multiculturale, pluralistico, frammentato, in cui ho più amici buddhisti che amici cattolici, in cui i nostri figli possono tifare Barcellona o Chelsea e hanno compagni di banco islamici e cinesi che parlano romanesco, nel quale si moltiplicano innumerevoli forme di spiritualità (ricordo l’acronimo in espansione: SBNR, Spiritual But Not Religious), ha senso questo insistere unilaterale sul Vangelo – che pure è la radice, accanto al mondo classico, dell’Europa – come unica fonte di idealità e ispirazione civilizzatrice?
3) Apparentemente ragionevole l’accento dei popolari sulla “collaborazione” tra le classi, ma di questa collaborazione si sono approfittati troppo spesso quelli che stanno in alto. Da una parte, oggi è ineludibile una opzione netta per la non-violenza, intesa non solo come tecnica di lotta politica ma come forma di esistenza (secondo uno studio recente la non-violenza nel corso del ‘900 ha ottenuto più risultati pratici della violenza). Dall’altra però soltanto se riprendiamo un elemento di conflittualità sociale (caro a Gobetti e alla tradizione liberale, che diffida di ogni visione organicistica), ovviamente entro i rigorosi confini della legalità, possiamo concretamente redistribuire reddito e potere, e così ridurre disparità e disuguaglianze. La libertà politica non garantisce la giustizia sociale ma rende possibile (e necessario) battersi per essa.
4) L’obiezione più forte all’Appello dei Popolari di don Sturzo: sembra proprio che gli esseri umani non abbiano alcuna intenzione di diventare “liberi e forti”. Da Dostoevskij (il Grande Inquisitore) fino al saggio di Carlo Levi Paura della libertà (1939) si ha l’impressione di una umanità perlopiù spaventata dalla libertà, e che preferisce invece sottoporsi ovunque a un potere che, almeno apparentemente, la protegga (e, aggiungo, che sappia intrattenerla). Negli Stati Uniti la cultura di massa ha prevalso sull’associazionismo, Hollywood ha vinto su Jefferson e Franklin. Il consumatore fa aggio sul cittadino. E se la democrazia – proprio come il Discorso della Montagna – richiedesse un tipo umano troppo elevato? D’accordo, si tratta di idea regolativa e mito civile (“performativo”), come all’inizio accennavo, ma bisogna saperlo.
Torno alla prima domanda: vogliamo per caso costringere gli individui a essere “liberi e forti”anche se non lo vogliono? Il progetto di “evangelizzare la società” potrebbe avere una segreta coloritura giacobina, ovvero la intenzione di istruire la massa dall’alto, ad opera di un’avanguardia che si ritenga illuminata (e proprio nel momento storico in cui tutti rifiutano qualsiasi figura di mediatore!). Se i cattolici debbano dar vita a un nuovo partito non è argomento che mi appassioni più di tanto, o sul quale io abbia particolare competenza. Mi limito ad osservare che, indipendentemente dalla risposta, oggi occorre un’azione capillare da parte dei cattolici, e di quanti condividano un orizzonte umanistico di valori, in uno sforzo che è insieme di educazione e autoeducazione, finalizzato – direbbe John Stuart Mill (autentico liberale e amico di Tocqueville) – alla democrazia come capacità di autogoverno con la parola. Il punto è diffondere di nuovo il gusto di essere “liberi e forti” nella vita civile, sapendo altresì che nella nostra esistenza privata siamo invece tutti deboli e con una libertà “condizionata” – fortunatamente – da innumerevoli dipendenze affettive.