Chi confidava in una inversione di tendenza, dovrà ricredersi. Anche nel 2018 le imprese viterbesi suderanno fino al 14 agosto solo per pagare i tributi. Su 365 giorni, ben 227 si lavorerà dunque per la liberazione dal fisco e appena 138 per soddisfare i consumi personali e della famiglia. Queste le previsioni del Rapporto 2018 “Comune che vai fisco che trovi”, presentato a Roma, a cura dell’Osservatorio permanente Cna sulla tassazione delle piccole e medie imprese, che analizza 137 comuni italiani.
Ma, oltre alla data della liberazione dalle tasse (tax free day), c’è un numero che sintetizza quanto sia difficile fare impresa e programmare investimenti per il futuro nel capoluogo della Tuscia: 62,2 per cento. E’ il peso complessivo del fisco sul reddito d’impresa (total tax rate). Un dato superiore alla media nazionale, attestata al 61,4 per cento, con un aumento, seppure di poco (+ 0,2), sul 2017. In più, secondo lo studio, che basa la sua analisi su una impresa tipo italiana con un reddito d’impresa di 50mila euro, si assottiglia ancora il reddito disponibile, pari a 18.897 euro (- 121 euro rispetto a un anno fa; – 1.352 euro se il confronto è con il dato del 2011).
“E’ una pressione fiscale insostenibile, tanto più se si considerano e si aggiungono le criticità analizzate nei giorni scorsi in occasione della Giornata dell’Economia promossa dalla Camera di commercio. Il nostro è il Paese con la tassazione più elevata in Europa e con uno squilibrio incredibile: tra la città più virtuosa dal punto di vista fiscale, Gorizia, con un total tax rate del 53,8, e l’ultima della lista, Reggio Calabria, con il 73,4, si evidenzia una differenza di 20 punti. Il fisco rappresenta il problema più grande, specialmente per i piccoli”, è l’osservazione di Luigia Melaragni, segretaria della Cna di Viterbo e Civitavecchia.
E a proposito di graduatoria, Viterbo non brilla davvero. Resta all’89° posto. Ma come si arriva a quel 62,2 per cento? Nel dettaglio, l’incidenza dell’Irpef e dell’aliquota Ivs (Invalidità – vecchiaia – superstiti) è pari al 42,6, delle imposte regionali al 7,7 e di quelle comunali all’11,9. Interessante la variazione registrata, per queste voci, dal 2011 al 2018: nel primo caso si rileva un incremento del 7 per cento, mentre nel secondo c’è stata una sforbiciata dell’8,9. E i tributi comunali sono saliti del 4,6 per cento.
La pressione si abbassa di due punti, al 60,3 per cento, nel caso delle aziende che hanno optato per l’Iri (Imposta sul reddito d’impresa, che sostituisce l’Irpef e le addizionali regionali e comunali ed è fissata, per il 2018, al 24 per cento sui redditi prodotti e lasciati in azienda). Per loro è anche maggiore il reddito disponibile (19.844 euro). “Ma la percentuale delle imprese che optano per questo regime – dice Melaragni – da noi è poco significativa”.
Emerge dal Rapporto della CNA un quadro davvero poco confortante. L’Osservatorio pone particolare attenzione al fatto che si va ampliando il divario tra la pressione fiscale che grava sulle piccole imprese e quella media nazionale. Nel 2017 è andata dal 61,2 per cento sulle piccole imprese al 42,4 sulla totalità dei contribuenti: una ingiustizia che vale 18,8 punti percentuali.
Che cosa accadrebbe alla curva del total tax rate, prevista in ascesa, se fossero attuate alcune proposte di riforma della Cna? La curva s’impennerebbe all’ingiù. Le ipotesi dell’associazione sono state presentate ai rappresentanti del governo e del Parlamento intervenuti all’iniziativa sul Rapporto.