Di Pier Paolo Pasolini, uno dei maggiori intellettuali italiani del Novecento di cui ricorre il centenario della nascita, non si può non ricordare il forte e quasi primitivo legame con la Tuscia, dove alcuni ebbero l’onore di conoscerlo e frequentarlo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Nato il 5 marzo del 1922, aveva comprato poco tempo prima di morire, la Torre di Chia, nelle campagne di Soriano nel Cimino, dove scrisse parte delle Lettere luterane e Petrolio, il romanzo, quest’ultimo, pubblicato postumo nel 1992.
La sua memoria è rimasta vivissima fino agli anni Ottanta in molti abitanti della zona. Come a Vignanello e Vallerano, dove, quasi nessuno lo sa, frequentava talvolta il famoso Bar Holiday, luogo di ritrovo e riferimento di tante generazioni, e ancora oggi tra i maggiori punti di aggregazione della zona. Arrivava il pomeriggio o la sera a bordo dell’Alfa Romeo GT 2000 acquistata nel 1972, la stessa utilizzata la notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975 per andare all’idroscalo di Ostia dove trovò la morte. La sua presenza non destava scalpore: quasi nessuno era consapevole fino in fondo del personaggio che si nascondeva dietro le sembianze dell’uomo cordiale e perfettamente a suo agio nell’ambiente, sebbene non sfuggisse che fosse un po’ più benestante della media e soprattutto più colto e preparato di tutti. Destava curiosità, nei ragazzini, la macchina che guidava: non se ne vedevano moltissime di quel tipo da quelle parti, ma si trattava di un dettaglio ininfluente. D’altro canto, per lui, era forse proprio questo sentirsi ed essere trattato come uno qualsiasi, un anonimo tra gli anonimi, la molla che lo portava a rifugiarsi lì, lontano dai riflettori dei media e della politica romana. Tanti i ricordi di quei tempi, fattisi sempre più offuscati man mano che quei ragazzi con cui aveva stretto amicizia diventavano adulti. Vengono tramandati i racconti di qualche cena nei locali o anche alla Torre di Chia, dei giri a bordo dell’Alfa Romeo e delle chiacchiere fino a notte fonda. Scene di un’umanità che vista oggi appare nostalgicamente più umana di quanto non s’immagini. Un’umanità a cui appartenevano pure gli agricoltori che confinavano con la Torre di Chia, anche loro in grande confidenza con quel signore “venuto da Roma”.
“C’è da salvare la città nella natura, il risanamento dall’interno, basta che i fautori del progresso si pongano il problema – disse Pasolini in un’intervista pubblicata il 24 settembre 1974 dal Messaggero dedicata proprio a questi paesi tra la Teverina e i Cimini –. Questa provincia che per miracolo si è finora salvata dalla industrializzazione, l’Alto Lazio con Viterbo e questi borghi intorno, dovrebbero essere rispettati proprio per il loro rapporto con la natura. Le cose essenziali nuove non dovrebbero essere costruite addosso al vecchio, basterebbe un minimo di programmazione. Viterbo è ancora in tempo per fare certe cose, quel che va difeso è tutto il patrimonio storico nella sua interezza, tutto ha un valore: un muretto, una loggia, un tabernacolo, un casale agricolo, ci sono casali stupendi che vanno difesi come una chiesa o un castello […] Ma la gente qui non vuol saperne, ha perduto il senso dei valori e della bellezza, tutto è in balia della speculazione, ciò di cui abbiamo bisogno è uno sviluppo culturale, una svolta culturale, un lento sviluppo della coscienza, per questo mi sto dando molto da fare per l’Università della Tuscia”.
Parole profetiche a rileggerle oggi se si pensa alla cementificazione selvaggia; alla morte dei centri storici, a iniziare da quello di Viterbo, ridotti a dormitori per extracomunitari; alla devastazione del paesaggio ad esempio ad opera delle energie alternative; all’inquinamento da fitofarmaci e diserbanti e alle monoculture agricole; alla mala gestione dell’acqua pubblica; e al totale disinteresse delle istituzioni per l’arte e la cultura, viste solo come merce per incrementare il turismo e riempire i portafogli; e alla stessa parabola dell’Università della Tuscia, che su Pasolini – quando si dice la riconoscenza – non sembra conservare sentimenti, almeno così appare all’esterno (ma speriamo si tratti di un abbaglio) da quando è uscito di scena il professor Giorgio Manacorda e altri sono saliti in cattedra.
A cento anni dalla nascita e a quasi 50 dalla morte, la provincia di Viterbo ricorda Pasolini con alcune iniziative spot ma ne ha smarrito la lezione. E chissà, da visionario poeta quale era, come tratteggerebbe, lui, la classe politica di questa terra, in particolare quella sinistra che ha rovinosamente abdicato al ruolo che la storia le aveva consegnato.