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Home » Politica » L’Italia e la sfida per conciliare nuove pale eoliche e antica bellezza

L’Italia e la sfida per conciliare nuove pale eoliche e antica bellezza

6 Novembre 2021

Anche il Corriere della Sera, in un articolo di Gian Antonio Stella, si è occupato del progetto del parco eolico a Tuscania composto da 16 aerogeneratori alti 250 metri. La sfida che aspetta l’Italia è dunque quella di sapere conciliare i progetti per le energie alternative con il paesaggio storico e culturale del Paese. Ciò è tanto più vero a Viterbo, dove la realizzazione selvaggia di questi impianti ha davvero raggiunto il livello di guardia. Proponiamo l’articolo del Correre a firma Gian Antonio Stella (link)

Possiamo fidarci, nel Paese delle deroghe dove un italiano su sei vive, fa le vacanze o lavora in un edificio parzialmente o totalmente abusivo, delle 33 deroghe su 67 articoli della legge che sveltisce le pratiche per avviare l’offensiva sulle energie rinnovabili? Dobbiamo. Ce lo dice l’Europa, ce lo impongono i fatti. C’è modo e modo, però: guai a coprire di pannelli fotovoltaici i colli di Leopardi, guai a tirar su nella Tuscia etrusca pale eoliche 19 metri più alte della Torre Unicredit, il più svettante grattacielo italiano. La bellezza, per l’Italia, è un bene non trattabile. Certo, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ci ha messo più volte la mano sul fuoco. Spiegando che sì, «l’obiettivo di fondo va tenuto presente ed è installare circa 70 Gigawatt di capacità rinnovabile al 2030 per tenere fede agli accordi di Parigi sul clima» ma «c’è un primo ampio margine di superfici utilizzabili che riguarda i tetti delle aree urbane e le aree industriali» e «nelle zone degradate gli impianti di energia rinnovabile possono risultare un volano per avviare progetti sostenibili di recupero». Di più: «Criteri stringenti e prioritari devono riguardare la tutela delle aree sede di beni culturali e delle aree naturali protette» e «il paesaggio naturale» con una speciale «attenzione al consumo di suolo». Parole giuste. Doverose.

Il dossier dell’Ispra

Dice un dossier dell’Ispra di un paio di mesi fa, che «nel 2020 abbiamo perso 56,7 chilometri quadrati di suoli naturali a causa di nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e infrastrutture e altre coperture artificiali, arrivando a un totale di oltre 21.000 chilometri quadrati, il 7,11% del territorio nazionale rispetto alla media Ue del 4,2%». Uno squilibrio enorme. Tanto più in un Paese come il nostro per il 35,2% montagnoso, per 41,6 collinare e solo per il 23,2 pianeggiante. Dove varie regioni si sono già divorate buona parte (il record negativo è della Liguria: il 22,8%) della superficie utile e ciò che resta, come scrive Salvatore Settis, «dovrebbe essere dedicato all’agricoltura».

Di più: dice quel report Ispra che oltre alla data del 2030 c’è anche quella del 2050 fissata dalla stessa Europa (cioè da tutti noi) per «azzerare il consumo di suolo netto». Obiettivo che «si scontra con la necessità di installare nuovi impianti fotovoltaici che permettano la transizione energetica verso fonti rinnovabili. Si stima che al 2030 saranno tra 200 e 400 i chilometri quadrati di aree agricole persi per installare pannelli fotovoltaici a cui se ne aggiungerebbero 365 destinati a nuovi impianti eolici». Tema: si possono conciliare due obiettivi opposti? Sì, dice l’Ispra: «Sfruttando i tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati si stima che potrebbero essere installati pannelli per una potenza totale più che doppia» rispetto ai gigawatt fissati dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima.

Gli esempi virtuosi

Esistono, del resto, esempi virtuosi. Come quello della bresciana Val Sabbia dove i comuni un tempo uniti dalla vecchia comunità montana si unirono ad altri ancora per costruire nel 2010 (voto unanime, di destra e sinistra) un impianto fotovoltaico in una valletta isolata da risanare per la presenza di 13 capannoni coi tetti d’amianto d’un vecchio allevamento. Un decennio dopo, pagate le rate del mutuo fissate e pronti a cambiare i pannelli per raddoppiare o quasi la loro resa, i 25 comuni sono in utile per oltre un milione l’anno e ricavano dall’impianto l’energia per circa trecento uffici pubblici. Ma per puntare ad affari sempre maggiori e in assenza di piani paesaggistici regionali aggiornati che individuino le aree sensibili, piani invocati sia dal ministero per la Transizione ecologica sia dagli ambientalisti, in un caos di pareri diversi di tutte le (tante) parti in causa, sono già stati costruiti impianti da fare accapponare la pelle a quanti amano il paesaggio e il patrimonio culturale. Esempi? Le distese di pannelli fotovoltaici posati nel Salento, tra le proteste e le invettive degli ambientalisti indignati per l’abbattimento di troppi ulivi che erano la memoria del lavoro dei nonni e dei bisnonni o la spalmata di pannelli realizzata a Troia, nel Foggiano, estesi su una superficie, accusa Altreconomia, «pari a 200 campi di calcio». O ancora il progetto del parco eolico di Ploaghe, nel nordovest della Sardegna, bocciato dal Tar dopo la relazione del soprintendente di Sassari e Nuoro Bruno Billeci. Uno di quelli, par di capire, accusati da Cingolani di scrivere rapporti «incomprensibili». Che lui vuole sbloccare portando le carte (con le deroghe, ovvio) in Consiglio dei ministri. Carte dov’è scritto però che quelle 27 pale eoliche progettate a due passi dalla stupenda basilica romanico-pisana di Saccargia sarebbero alte 180 metri: tre in meno del grattacielo delle Generali a Milano, quarto edificio più alto d’Italia. E avrebbero una base di 21 metri per lato: proprio quanto è lunga la basilica stessa o se volete il triplo della torre del Big Ben di Londra.

C’è modo e modo. E luogo e luogo

Ha senso? Dicono: ma i soprintendenti sono lenti… C’è da crederci: quello di Sassari e di Nuoro, all’entrata in servizio, due anni e sei mesi fa, aveva 114 dipendenti per 165 comuni e un migliaio di chilometri di coste: ora ne ha 53. E dal 1° gennaio al 30 settembre è stato travolto da 9.043 pratiche. Isolato più di quei «pochi eroi sopraffatti dal lavoro e senza mezzi (…) assediati da orde di impresari, ingegneri, architetti, geometri e altri guastatori» di cui scriveva Indro Montanelli nel 1966. Gli stessi che, c’è da scommetterci, assediano (magari vantando il nobile intento di aiutare l’Italia con l’energia pulita) quanti si stanno occupando del progetto per tirar su accanto a Tuscania, area straricca di bellezza e archeologia, quelle sedici turbine di 250 metri di cui dicevamo, da anni denunciate da Italia Nostra. Una palizzata ciclopica. E vabbè, dirà qualcuno, da qualche parte bisognerà ben costruirli questi impianti indispensabili per il nostro futuro. Vero: da qualche parte. E lì torniamo: c’è modo e modo, c’è luogo e luogo. E se vogliamo dirla tutta c’è anche committente e committente. Perché non va bene che i progetti che incideranno sul nostro futuro paesaggistico, agricolo, culturale e anche turistico, siano presentati dalle aziende così, dove conviene: o così o così. Certe cose vanno decise insieme. E magari senza giochicchiare sull’articolo 9 della nostra Costituzione che qualcuno vorrebbe, guarda caso, «ritoccare»…

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