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Home » Politica » Storia della Repubblica: le radici di una politica nuova

Storia della Repubblica: le radici di una politica nuova

9 Maggio 2021

Da il domaniditalia.eu riprendiamo e pubblichiamo l’articolo di Giovanni Iannuzzi.

La domanda di politiche pubbliche innovative radicate nel governo del quotidiano, da tempo non trova un’offerta di partito e una classe dirigente all’altezza delle aspettative. Anche per questo ci si rifugia nell’astensionismo – che in Italia oggi è la forza più consistente – o ci si lascia sedurre da proposte spesso semplicistiche.

Le premesse sociali e culturali di spinte ribelliste o reazionarie sono sempre esistite nel sistema politico italiano. Nella complessa fase repubblicana, si sono consumati alcuni passaggi caratterizzati da impulsi populisti e antiparlamentari, senza dimenticare i tanti avvenimenti – spesso drammatici – e le pressioni che spingevano a imboccare la strada del blocco d’ordine e perseguivano l’obiettivo di ostacolare lo sviluppo democratico. Ma proprio quel sistema fondato sulla Costituente e sui partiti, in grado di garantire partecipazione e rappresentanza ai cittadini, riuscì a contenere le tentazioni contestatarie o destabilizzanti. Nel momento in cui i grandi partiti di massa, ma anche i minori, però, entrarono in crisi[1], in un clima di diffusa insoddisfazione nei confronti delle istituzioni, il “mercato” politico è diventato più aperto e competitivo. Così, in un contesto di debolezza, sono comparse sulla scena nuove forze che sono riuscite a sfruttare questo spazio[2].

Dopo Moro, di fatto, iniziava la fine della “Prima Repubblica”, la politica dei partiti abdicava al compito di rappresentare la società e si avviava verso una incerta ricerca di nuovi equilibri che dura tuttora[3]. Anche da questa abdicazione dei politici si è determinata, in seguito, la prassi che ha visto il coinvolgimento dei tecnici chiamati al governo dagli stessi partiti in crisi di credibilità.

Il nostro paese registra, oggi, in questo contesto, una forte presenza del populismo, ma allo stesso tempo “tollera” quella che si potrebbe definire come una anomalia, vale a dire la frequente formazione di governi guidati da leader scelti per competenza.

A livello giornalistico questo tema è stato affrontato in modo esaustivo. Sul punto sembra utile riprendere una stimolante riflessione tra studiosi, apparsa sul “Corriere della Sera” il 3 maggio scorso[4]. Il dibattito verte intorno ad alcuni spunti: l’antipolitica che resta molto forte nonostante la normalizzazione dei cinquestelle (Roberto Chiarini); il ricorso, come si è accennato, a leader tecnici in quanto i governi sono fragili e lo Stato inefficiente (Maurizio Ferrera); il fatto che il moralismo degli intellettuali e la retorica liberista non aiutano affatto (Mario Ricciardi). Il tema centrale resta quello sul ruolo dei partiti: «Nell’Italia repubblicana – si legge – la democrazia si legittima non attraverso le istituzioni, ma grazie alla rappresentatività popolare dei partiti. Quando essi vanno in crisi irreversibile, negli anni Novanta, è la politica stessa che viene delegittimata». Il populismo, di conseguenza, si ritrova la strada spianata. Ma alla prova del governo la strategia populista si scopre inadeguata e, inoltre, secondo Chiarini, «[i cinquestelle] non sono riusciti a esercitare alcun ruolo pedagogico su chi li ha votati». È importante sottolineare questo passaggio, vale a dire quello relativo alla considerazione che vede il populismo prosperare sulla crisi dei partiti tradizionali, ma senza la capacità di offrire soluzioni. Su questo concetto sostanziale, interviene Ferrera, con un’affermazione condivisibile: «Il fatto che il malessere diffuso si traduca in ondate populiste si deve anche alla scelta deliberata di sfruttare la rabbia a fini di consenso da parte di imprenditori politici come Grillo, Salvini e Meloni. È una strategia basata sullo stile comunicativo urlato, pagante sotto il profilo elettorale, ma incapace di esprimere una linea programmatica coerente». La pandemia, continua nel suo ragionamento Chiarini, «ha obbligato ad appoggiarsi sugli scienziati un ceto politico in deficit di competenze ma anche di legittimità, in quanto selezionato per cooptazione su liste bloccate». E in Italia, secondo il pensiero di Ricciardi, una politica debole sembra che abbia ceduto alla tentazione di usare come schermo il Comitato Tecnico Scientifico. In questa prospettiva, «i membri di questo organismo, a loro volta, sono diventati protagonisti del dibattito pubblico», interferendo nel processo decisionale, perdendo così l’occasione di valorizzare la distinzione tra il compito degli scienziati (che è quello di fornire una cornice di dati da valutare) e l’autorità (con la funzione di compiere scelte secondo criteri politici). Questa prassi, inoltre, rischia di «destare preoccupazioni per il futuro di una democrazia in cui i governanti cercano di sfuggire alla responsabilità»[5]. In effetti, ciò che ha caratterizzato il caso italiano è stata, in un certo senso, «la rinuncia del livello politico a valutare il prezzo delle decisioni suggerite dagli esperti e ad assumerle con un atto di responsabilità»[6].

In questo filone, anche se in un ambito più giuridico, si è inserito l’intervento di A. Iannuzzi che ha auspicato la necessità di impostare un’alleanza virtuosa fra diritto e scienza, in quanto la politica nelle democrazie occidentali non può delegare la guida della società alla scienza, neanche in uno stato di eccezione come quello attuale. Con l’emergenza sanitaria ci siamo trovati dinanzi ad una fase nuova: «Non più la decisione politica basata sulla scienza, ma science driven, in cui la scienza viene assunta quasi come un formante al quale deve rifarsi il legislatore». E in questa situazione paludosa, in definitiva, «la scienza ha assunto, almeno in alcuni momenti, un ruolo di guida rispetto alla politica»[7].

In una recente riflessione, Giuseppe De Rita ha affrontato la questione del delicato rapporto che si viene a creare fra la dimensione tecnica e la dimensione politica. Il fondatore del Censis ha recuperato, attualizzando la sua ricognizione, le esperienze del “Piano Vanoni”, il “Rapporto Saraceno”, il “Piano Giolitti”, il “Rapporto Ruffolo”, e l’analisi del lavoro svolto da alcune figure – a metà tra tecnica e politica – nei momenti cruciali della storia repubblicana[8].

Molti studiosi, tra cui Andrea Riccardi, Guido Crainz, Piero Craveri, commentando la cerimonia funebre di Aldo Moro, hanno parlato di “funerale della Repubblica”. Ma la Patria non muore, anzi rinasce affermava Moro in un intervento a Radio Bari nell’autunno del 1943[9]. Basti pensare, per esempio, all’esperienza del “Codice di Camaldoli” del 1943. Con la guerra ancora in corso, una nutrita schiera di laureati formò una comunità pensante e il loro contributo arricchì i lavori della Costituente nel 1946, cambiando il corso della storia.

Il paese, oggi, è indebolito da una permanente campagna elettorale, nella quale risulta prioritario la costruzione di fronti contro chi schierarsi piuttosto che la messa in campo di azioni concrete e di visioni di società. In questo quadro si inserisce l’analisi di L. Violante quando sottolinea che «la discussione più profonda sul merito, sul futuro del paese, sui legami tra le generazioni, sulla formazione delle classi dirigenti non trova il tempo necessario per dispiegarsi. Di qui derivano due difetti: la difficoltà di elaborare strategie di medio periodo e l’aggressività che caratterizza molti confronti politici. Fino alla metà degli anni Settanta tra le forze politiche vigeva una sorta di doppio standard: lotta nella società per il primato, dialogo in Parlamento per il governo. Nella società lo scontro tra i due principali partiti, la DC di governo, il PCI di opposizione, era senza esclusione di colpi. In Parlamento, dove si doveva governare il presente e costruire il futuro, subentrava l’interesse nazionale». Dopo l’ultima fase di unità nazionale, seguendo anche il filo di questa riflessione, «quando il sistema politico entra in crisi, sino ai giorni nostri, il conflitto è senza confini tanto in Parlamento quanto nel paese»[10]. Non bisogna dimenticare, però, che dalle grandi crisi non si esce senza la politica. Questa tesi rappresenta il punto di partenza di un recente saggio di A. Barbano. La politica, secondo il saggista, «ha bisogno di idee coltivate con cura e cementate nel corpo del Paese. Oltre il tempo dell’urgenza»[11]. Bisogna aggiungere, infine, che la grande crisi alla quale assistiamo si è innescata su un processo di lungo periodo caratterizzato da nuovi conflitti sociali, dalla sfiducia verso gli istituti e le forme della rappresentanza, dal deterioramento degli equilibri dello Stato. La fase che si è aperta ora per il paese, dunque, «chiama la politica a una riassunzione di responsabilità imprescindibili»[12].

«Vorrei ricordare un grosso personaggio che è nato a pochi passi da qui, è nato a Maglie»[13]. Sono le parole, anzi è la voce di Rino Gaetano che durante un suo concerto in Puglia nel 1977, dedicava Berta Filava proprio al politico pugliese. E Aldo Moro, soprattutto nei momenti cruciali della storia repubblicana, tesseva, filava e ricuciva rapporti, intese politiche, convergenze democratiche. Alla base della sua pedagogia civile c’erano la sua arte di accompagnare i processi e il suo metodo per riformare lo Stato senza perdere la società.

Esperienza, competenza, cultura politica, sono tutti fattori essenziali che occorre recuperare, insieme ai centri studi e alle scuole di partito. Le parole d’ordine di questo tempo devono essere: senso di responsabilità e senso delle istituzioni, doti e virtù che rendono Aldo Moro, la sua formazione e quella politica ancora tanto attuale.

[1] M. Damilano, Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia, Milano, Feltrinelli, 2018; W. Veltroni, Il caso Moro e la Prima Repubblica, Milano, Solferino, 2021

[2] G. Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Milano, Utet, 2021

[3] R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, in “Mondo Contemporaneo”, n. 2-2010

[4] A. Carioti, (a cura di), Laboratorio Italia. Un po’ tecnocratica, un po’ antipolitica, in “Corriere della Sera”, 3 maggio 2021. Si tratta di una conversazione tra studiosi, tra questi Maurizio Ferrera, Mario Ricciardi e Roberto Chiarini, autore di un recente saggio, Storia dell’antipolitica dall’Unità a oggi. Perché gli italiani considerano i politici una casta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2021

[5] A. Carioti, (a cura di), op.cit.

[6] A. Barbano, La visione, Milano, Mondadori, 2020, p. 12

[7] A. Iannuzzi, Per un’alleanza virtuosa fra diritto e scienza, in “Formiche”, n. 169, maggio 2021

[8] G. De Rita, Ci siamo persi la classe dirigente, in “Corriere della Sera”, 26 aprile 2021

[9] Intervento riprodotto integralmente dal “Corriere della Sera”, Aldo Moro contro il fascismo nel ’43: ha ucciso la patria, la ricostruiremo, 6 maggio 2019; Cfr. in L. D’Ubaldo, Amare il nostro tempo. Appunti sul giovane Moro, Roma, Il Domani d’Italia, 2020, pp. 53-66

[10] L. Violante, Insegna Creonte, Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 106-107

[11] A. Barbano, op. cit., p. 16

[12] A. Barbano, op. cit., p. 13

[13] I. Insolia, Aldo Moro che “filava con Mario e filava con Gino”. Il racconto di Rino Gaetano, 8 maggio 2020; Cfr. in https://shockwavemagazine.it/rubriche/approfondimenti-curiosita/aldo-moro-rino-gaetano-berta-filava/

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