Da La Stampa riprendiamo e pubblichiamo l’articolo di Luigi Ciotti, dal titolo “Livatino, il Vangelo contro la mafia. Una fede pura e itnransigente rafforzava la sua azione di giustizia”.
Il 19 maggio 1993 papa Giovanni Paolo II si trovava in visita pastorale in Sicilia. Prima di celebrare la Santa Messa presso la Valle dei Templi di Agrigento – una messa destinata a passare alla storia – incontrò privatamente una coppia di anziani coniugi.
Erano la mamma e il papà di Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso pochi anni prima dalla mafia, passato alle cronache come il «giudice ragazzino» secondo la definizione che qualcuno usò con tenerezza, altri con un paternalismo davvero fuori luogo. Fuori luogo perché, a prescindere dall’età, Livatino era stato un giudice di eccezionale statura morale, professionale e umana. Chiunque abbia collaborato con lui ne ricorda in primo luogo l’intelligenza brillante e l’enorme senso di responsabilità. Responsabilità verso lo Stato e verso il compito di tutore della legge che gli era affidato. Ma ancora di più verso le persone, il oro diritti e la loro dignità.
A guidarlo, nella vita come nella professione, non erano grandi certezze, ma piuttosto grandi e coraggiose domande. Rosario era abituato a interrogarsi senza sconti: sul rapporto delicato tra Legge e Giustizia – sua la scelta delle maiuscole -, sull’autenticità della propria fede, sulla necessità di trasparenza e autonomia assolute legate al suo ruolo pubblico. I suoi diari testimoniano un’esistenza interiore tanto ricca quanto semplici, umili e riservati erano i suoi atteggiamenti quotidiani. Giovanni Paolo II poté sfogliare quei diari – come anni dopo ebbi anche io il privilegio di fare-, accolse il dolore dignitoso dei genitori, forse già intuì i segni della santità del figlio. E, sull’onda di quell’incontro, al termine della Santa Messa pronunciò un’invettiva contro le mafie che mai prima era risuonata così netta e chiara dentro la Chiesa.
Non è un caso se quella stessa Chiesa ha scelto proprio il 9 maggio come data per celebrare la beatificazione di Rosario Livatino. Che oggi è proclamato beato perché ucciso «in odium fidei», ossia per disprezzo verso la sua fede cristiana. In quella fede pur a e intransigente infatti, secondo quanto ricostruito dalla Congregazione per le Cause dei Santi, i mafiosi videro l’ostacolo insormontabile a corromperlo, o perlomeno a sperare in un progressivo indebolimento della sua azione di giustizia.
Che valore ha questa beatificazione? Per i credenti, ribadisce un messaggio ormai inequivocabile: quello dell’assoluta incompatibilità tra il Vangelo e qualsiasi forma di collusione o ambiguità verso le mafie, l’illegalità e la corruzione. E dunque della necessità di un impegno personale e comunitario contro queste forme di ingiustizia e abuso. Ma il messaggio io credo valga anche per chi non crede o ha una diversa fede. Perché, a prescindere dai riferimenti spirituali, la passione civile di Rosario Livatino, il suo sereno distacco verso qualsiasi ritorno di interesse , visibilità o presti gio, la sua attenzione alle sorti dei più deboli – incluse le persone detenute che lui stesso aveva contribuito a condannare -, la sua precoce sensibilità verso i temi ambientali sono oggi di esempio per chiunque abbia a cuore la salute della giustizia e il futuro della democrazia.