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Home » Politica » In morte di Franco Marini, che dal sindacato al partito si rimise in discussione

In morte di Franco Marini, che dal sindacato al partito si rimise in discussione

10 Febbraio 2021

Da il Foglio riprendiamo e pubblichiamo l’editoriale di Giuseppe Fioroni in ricordo di Franco Marini.

Mi resta difficile separare il ricordo umano dal ricordo politico, anche se Franco Marini merita anzitutto di essere riconosciuto da tutti noi, amici e non amici, come una figura pubblica di assoluto rilievo, un protagonista della vita democratica degli ultimi decenni, un grande riferimento per i democratici di matrice popolare e cristiana. La sua tenacia o la sua ruvidezza erano la corazza che proteggeva la vocazione a proiettare fuori dalla sfera privata un moto spontaneo di generosità e altruismo. Difficilmente nel suo modo di agire in mezzo a piccole e grandi vicende, spesso segnate da personalismi, vi si poteva scorgere la curva del tornaconto.

Non si atteggiava a uomo disinteressato, lo era nell’intimo e con semplicità, da vero figlio del popolo. Conosciamo a grandi linee la sua attività prestigiosa, anzitutto nel sindacato, poi nella sfera eminentemente politica e istituzionale. Nella Cisl è stato il più combattivo assertore di quel necessario recupero di autonomia dopo la stagione, fatta di luci e di ombre, dell’unità sindacale negli anni immediatamente successivi al ’68-’69. Un’autonomia, per essere chiari, che implicava la rottura con l’omologazione a sinistra, rispetto a schemi e linguaggi, cioè, che affievolivano l’originalità del “sindacalismo bianco”. Divenne il segretario generale della Cisl sulla scorta di tale desiderio di riscatto, alzando la bandiera dell’orgoglio e dell’identità, senza tuttavia “strappare” il tessuto unitario dell’organizzazione.

Con il suo stile, poco concedendo alla retorica, mise ordine alla dialettica interna, così da configurare la nuova segreteria come una evoluzione della precedente, affidata a Pierre Camiti, in un empito comune di rinnovato protagonismo cislino. Dunque, spostò l’asse della politica sindacale, ma tenne a bada le spinte di tipo genericamente revanscista. Questo sforzo di equilibrio condizionò in positivo il passaggio alla vita di partito, nei ranghi della Dc, quando Carlo Donat-Cattin lo incoronò come leader della sinistra sociale (Forze Nuove). Altri sindacalisti prima di lui ebbero in sorte la medesima duplicazione di ruoli. Senonché, poiché Marini passò al partito dopo che la distinzione tra sfera sindacale e sfera politica divenne persino un feticcio, anche con punte di esasperazione, la sua esperienza appare del tutto nuova e diversa. Lui è riuscito, in effetti, a non farsi ingabbiare nello stereotipo del sindacalista “traslocato” in politica, difensore pertanto di interessi e sensibilità a sfondo per così dire corporativo.

Una volta in politica, Marini rifugge da questa etichettatura di comodo e assume la responsabilità di una leadership di altro segno. Non so fino a che punto, con il suo stile affine e distinto da quello di Donat-Cattin abbia deviato da una certa modalità di concepire la lotta politica. Sta di fatto che sull’onda della diaspora democristiana arrivò a plasma una peculiare reinterpretazione della linea cristiano sociale e popolare. Per lui fu naturale ritrovarsi nei Popolari, come pure nei successivi approdi, dalla Margherita al Partito democratico.

Il suo Ppi avrebbe potuto resistere e alla lunga riscuotere più ampi consensi; ma le circostanze non furono fortunate e da esse ricavò, con disciplina, lo stimolo ad andare oltre. Fu coraggioso a rimettere in discussione anche se stesso, per dare l’esempio, riuscendo a far sì che la buona battaglia desse ragione alla generosità dei Popolari. Da qui deriva, per giunta, la stima di chi lo ha conosciuto molto da vicino. Tra i tanti ci sono anch’io, senza poter dire il perché e il percome di un’amicizia cresciuta nel tempo, con senso di gratitudine da parte mia.

Nel 1996 sono entrato in Parlamento per l’insistenza che mise nel volermi candidato in un collegio difficile. Era sicuro che si potesse vincere, e così fu. Possedeva un intuito straordinario per le dinamiche organizzative e quindi per la sapiente costruzione delle liste elettorali. Era un maestro, ineguagliabile. Gli sono stato vicino quando fu eletto alla presidenza del Senato e quando anni dopo, per scorrettezza e viltà di ignoti, non fu eletto alla presidenza della Repubblica. Nell’un caso e nell’altro mantenne equilibrio: né si esaltò nel successo, né si demoralizzò nella sconfitta.

In particolare, la mancata elezione al Quirinale poteva essere motivo di recriminazione, ma non per un uomo della sua dignità e compostezza. Ecco, ci ha insegnato a vivere la politica con serietà, anche nei momenti difficili, per un dovere di coerenza. E oggi più che mai ritengo che questa sua lezione di vita possa dare senso all’impegno pubblico, tanto nei partiti quanto nelle istituzioni, a fronte di una domanda di nuova credibilità che investe la politica a tutti i livelli. Non solo in Italia.

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