Da LaStampa, riprendiamo e pubblichiamo l’articolo a firma di Marco Follini
Caro direttore, non credo che Moro, fosse vivo, battezzerebbe questa fase politica definendola come una “instabile continuità” oppure una “stabile discontinuità”, come lei annota. Gli piacevano i discorsi complicati, questo si. Ma non le situazioni ingarbugliate. E pensava, o forse si illudeva, che i discorsi complicati valessero a sbrogliare alcune intricate matasse della politica dei suoi tempi.
Negli anni Sessanta gli fu attribuita la definizione delle “convergenze parallele” per spiegare un governo in cui democristiani e socialisti collaboravano si, ma senza darlo troppo a vedere. Quella frase era un ossimoro politico e un’assurdità matematica. Gliela attribuì Eugenio Scalfari, e lui non la smentì. Ma in realtà non l’aveva mai pronunciata. E a difesa del suo onore scolastico gli venne di dire, “Eppure in matematica ero piuttosto bravino”.
Ora, la questione non è la oscurità del linguaggio dei tempi di Moro. Ne, forse, la maggiore facilità di questa nuova stagione,. Il punto è che in quegli anni lontani la politica usava un linguaggio sofisticato per fare qualche piccolo passo in avanti. Mentre oggi parla facile per dare un colore appariscente alla sua tenace propensione a restare ferma dov’è.
Nei leader di quelle lontane stagioni c’era l’ambizione di guidare i propri seguaci, facendo intravedere loro traguardi che non erano solo quelli del proprio spirito di fazione. Una funzione educativa, pedagogica, che metteva nel conto di non essere capiti e di aver bisogno di tempo e pazienza (e molte parole) per venire a capo di remore e diffidenze. Mentre oggi si adotta un linguaggio alla mano, celebrativo, vagamente trionfalistico, per non dispiacere ai propri follower sperando che la loro partigianeria continui a esserci propizia.
Gli echi del linguaggio un po’ barocco della prima repubblica rimandavano al tentativo che quella classe dirigente faceva di spingere le cose più avanti. Con cautela, prudenza, qualche reticenza. Mentre il “parla come mangi” dei nostri giorni evoca semmai con la semplicità delle sue parole d’ordine il suo non saper più dove andare. Ragion per cui io penso, per il ricordo che ho di lui, che di fronte alla situazione politica di oggi Moro non direbbe una parola. Si chiuderebbe semmai nel silenzio-arte in cui riversava tutto il suo talento.