Matteo Salvini, ha scritto una lettera ad Avvenire dopo la scoperta di resti umani in una foiba, svelata proprio dal quotidiano cattolico. Il leader della Lega ha ricordato che “nel 1969, quando di foibe si parlava soltanto sottovoce e con molti imbarazzi, l’allora Presidente Saragat conferiva al Maresciallo Tito l’onoreficenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana”.
Una scelta, aggiunge Salvini, che “oggi noi abbiamo il dovere di correggere con l’annullamento e la revoca di quel conferimento a uno dei più sanguinosi dittatori del Novecento”.
In seguito all’esternazione di Salvini molte sono state le reazioni venute dal mondo della politica e non. Tra queste la breve considerazione fatta da Lucio D’Ubaldo il quale tramite il suo profilo Twitter ha scritto: “Va di moda il revisionismo simbolico, perciò #Salvini propone di cancellare l’alta onorificenza conferita al Maresciallo Tito nel 1969 da Giuseppe Saragat. Quindi, che facciamo? Quest’ultimo lo cancelliamo da Presidente della Repubblica?”
Di seguito la lettera integrale di Matteo Salvini all’Avvenire:
“Caro direttore, mi rivolgo a Lei perché – nonostante alcune legittime e normali divergenze – più volte ho avuto modo di apprezzare il coraggio di “Avvenire” nel ritagliare spazi di confronto vero. È successo in materia di immigrazione con i cosiddetti “corridoi umanitari” che durante i miei 14 mesi al Viminale ho intensificato con grande convinzione anche sulla scorta di un Suo stimolo, e che spero l’attuale Governo voglia ripristinare al più presto dopo troppi mesi di incomprensibile inerzia. Certo, su altri aspetti del tema immigrazione la pensiamo diversamente: inutile ricordare la posizione della Lega a proposito dei porti chiusi (non a caso il 3 ottobre sarò processato a Catania per aver difeso i confini dell’Italia), ma con Avvenire c’è la possibilità di discutere e siamo in sintonia su altri argomenti come la lotta alla ludopatia o la necessità di valorizzare il volontariato e la cooperazione internazionale, senza dimenticare i dibattiti aperti e trasversali sulla difesa della famiglia e più in generale di un sistema di valori fondato sulla sacralità della vita e sulla persona. Per questo confido che anche la mia breve riflessione odierna finirà in buone mani e si tradurrà in una presa di posizione che mi auguro porti a un piccolo grande atto di giustizia verso la nostra storia. Per introdurre l’argomento una sola parola è purtroppo sufficiente. Foibe, direttore. Due giorni fa in una di esse è venuta alla luce un’altra fossa comune, e ne abbiamo avuto notizia proprio grazie ad Avvenire. Al suo interno i resti umani di circa 250 persone, per lo più ragazzini tra i 15 e i 16 anni, innocenti, gettati dalla furia sterminatrice del comunismo titino. Non un massacro estemporaneo, non una vendetta contro terribili gerarchi, né tantomeno un episodio isolato, quanto piuttosto l’ennesimo atto di una tragedia che ha visto l’uccisione sistematica di migliaia di persone, sia tra la popolazione slava sia nei confronti degli italiani su cui si abbattè un vero e proprio tentativo di genocidio. Genocidio premeditato, cosciente e organizzato. Questa è la conclusione a cui da tempo (e non senza ostacoli) sta giungendo la storiografia e questo è quanto emerge dalle viscere della terra insieme alle ossa, ai brandelli dei vestiti di quei poveri ragazzi in Slovenia che hanno subito lo stesso atroce destino di migliaia di italiani barbaramente uccisi per la sola colpa di esistere. È una ferita profonda nel nostro passato che non possiamo permetterci di lasciar passare sotto silenzio, soprattutto perché c’è qualcosa che possiamo fare per ricucirla coralmente, come Paese. Nel 1969 infatti, quando di foibe si parlava soltanto sottovoce e con molti imbarazzi, l’allora Presidente Saragat conferiva al Maresciallo Tito l’onoreficenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana. Una scelta che in chiave storica si può inquadrare, e forse giustificare, nella strategia del blocco Occidentale che in quegli anni tentava di blandire il comunismo jugoslavo in opposizione a quello sovietico, ma che oggi noi abbiamo il dovere di correggere con l’annullamento e la revoca di quel conferimento a uno dei più sanguinosi dittatori del Novecento. Lo dobbiamo al sacrificio di troppi innocenti massacrati senza pietà, lo dobbiamo agli esuli e ai loro discendenti, quelli che Montanelli definiva “doppiamente italiani”, prima per nascita e poi per scelta, lo dobbiamo ai nostri figli perché sappiano, con le parole di Oriana Fallaci che “le dittature, siano nere, rosse, gialle, sono tutte uguali e che la lotta dell’uomo per la libertà è sempre la stessa”.