Da ildomaniditalia.eu riprendiamo e pubblichiamo
di: Dante Monda
Prendere la parola durante un’emergenza è un salto nel buio
che richiede coraggio, e anche una certa dose di avventatezza. Per
questo la comunicazione pubblica oggi è insieme inquieta ed esitante. Lo
stesso si dica per la nostra classe dirigente, spiazzata di fronte a
un’impresa del tutto inedita. Come nella storiella di ‘al lupo, al
lupo’, dopo anni di emergenza continua e di crisi alternate, da quella
finanziaria alle varie crisi di governo alla cosiddetta crisi
migratoria, quando arriva un’emergenza per molti versi più emergente
delle altre, perché più avvertita sulla pelle e nel corpo delle persone,
siamo impreparati e ci mancano le parole per esprimere e dare forma al
nuovo trauma: mancano perché ne abbiamo abusato, sono ormai inflazionate
in una cronica crisi di credibilità. Fa quasi sorridere, e a volte fa
tirare un sospiro di sollievo, l’atmosfera sospesa e rarefatta dei talk
show così tranquilli senza pubblico, delle opinioni proposte col
beneficio del dubbio, mettendo le mani avanti, pur sempre turbata da
brevi sfoghi personali dei soliti urlatori. Ma al netto di marginali ed
episodiche scenate, generalmente si è più cauti, più responsabili, e ci
si chiede se non si possa restare così, se dopo questa purga ci
sentiremo più sobri, più lucidi.
Posto questo augurabile guadagno in lucidità, per metterlo davvero a
frutto occorre un salto in più. Per pensare seriamente a come
riorganizzare l’economia e la società dopo la tragedia che stiamo
vivendo si deve pensare più a fondo. Infatti per poter chiarire e
decidere cosa prevedere per il domani, prendendo posizione su possibili
pronostici oggi ancora incerti, occorre un pensiero radicale che si
interroghi su come e perché sperare. Si sente insomma un’urgente domanda
di speranza, e precisamente sulla speranza, domanda sempre sottintesa
ad ogni pensiero pubblico, ad ogni comunicazione. La domanda
fondamentale della crisi della salute è la domanda sulla salvezza, come
rivela l’etimologia. Riusciamo davvero a sperare? Su cosa si fonda
questa speranza? Cosa dà forma ad essa, alla nostra vita, oggi e per
l’avvenire?
Per farsi meglio queste domande, si potrebbe andare a rispolverare i classici, cioè quelle letture che, pur lette di sfuggita, al liceo ci inquietavano e ci formavano. Molto a tema capita il testo fondamentale Malattia per la morte, di Kierkegaard. In quelle pagine densissime ed esplosive della cultura occidentale si raffigura e prefigura l’uomo moderno e la sua crisi post-moderna. Un uomo inevitabilmente disperato, seppure latentemente e in diversi gradi e forme. Disperato perché preda delle sue contraddizioni, perso negli estremi di finito e infinito, possibilità e necessità. È l’uomo «fantastico», per cui «sempre più cose diventano possibili, perché niente diventa reale», perché «tutto diventa sempre più istantaneo»; ma anche, per converso, il fatalista determinista,o il «conformista» borghese, senza fantasia, senza «spirito», entrambi irrigiditi nella sola necessità. Dell’ultimo tipo di disperato si leggono righe attualissime, quando è descritta la sua reazione di fronte alla paura: «se talvolta l’esistenza aiuta con orrori che eccedono la saggezza pappagallesca dell’esperienza triviale, il conformismo dispera, cioè, diventa allora manifesto che era disperazione».
Di fronte all’eccedenza dell’orrore, della paura fisica o comunque
esterna, dell’imprevisto che sconvolge il nostro ordine, il conformista
crolla, dispera e ammutolisce.
A distanza di quasi due secoli, da quel 1849 denso di svolte storiche,
il filosofo danese ritrae con tremenda onestà gli stessi atteggiamenti
tipici che oggi riaffiorano nei nostri discorsi: di fronte al trauma e
all’orrore, davanti alla manifestazione della nostra disperazione, non
riusciamo a non essere emotivi, rassegnati e sconcertati. Chi si
abbandona alle isteriche fantasie che circondano le fake news, chi
all’elitarismo del disincanto, i più restano nel ‘disorientamento di
massa’ più muto e paralizzato.
È inutile e forse anche pericoloso rifiutare questo stato delle cose, bisogna farci i conti. Se la nostra disperazione riuscirà a manifestarsi nella modo più autentico possibile, attraverso un pensiero radicale e sincero, forse potremmo imparare, senza troppe pretese, ad attraversarla e viverla con più verità, meno finzioni fantastiche o ipocrite. Sicuramente questo condurrebbe ad un modo più autentico di sperare: è solo con il riconoscimento della vera disperazione che si scopre la vera speranza. Come indica un altro classico del pensiero occidentale, anch’esso pensato nel momento della crisi: «solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza» (da Angelus Novus, Walter Benjamin, 1892-1940).