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Home » Opinioni » Jack, l’inquietudine e la gioia

Jack, l’inquietudine e la gioia

17 Novembre 2019

La virtù paradossale della lettura

Dall’Osservatore Romano riprendiamo e pubblichiamo

di Andrea Monda

La vicenda umana e letteraria di Clive Staples Lewis è legata a una instancabile, rigorosa, ricerca; ricerca intellettuale, professionale, creativa e prima ancora, filosofica e spirituale. Agli inizi degli anni ’10 Lewis abbraccia l’ateismo che non abbandonerà fino alla metà degli anni ’20, periodo in cui passa a un indistinto spiritualismo di matrice hegeliana: il giovane «Jack» (come viene chiamato dagli amici) ammette l’esistenza di uno Spirito, un Assoluto, ma non lo identifica né con il Dio dei Cristiani né in Qualcuno con cui l’uomo possa avere un rapporto personale. È ancora inquieto rispetto all’ipotesi Dio: «Come molti atei vivevo allora in un vortice di contraddizioni. Sostenevo che Dio non esiste. Ero anche molto arrabbiato con Dio per il fatto che non esisteva. E ce l’avevo con lui anche perché aveva creato il mondo». Alla fine degli anni ‘20 la sua lotta con Dio conosce il momento della resa; scrive nell’autobiografia Sorpreso dalla Gioia, era il 1929 quando «mi arresi, ammisi che Dio era Dio e mi inginocchiai a pregare: fui forse, quella sera, il convertito più disperato e riluttante d’Inghilterra». La conversione al cristianesimo di Lewis fu causata oltre che dalla lettura di alcuni libri (G.K. Chesterton e G.MacDonald in primis) anche dalla vicinanza di una serie di persone e di amici convinti cristiani, a partire dal fratello maggiore, Warnie (anche lui passato in quel periodo dall’ateismo al cristianesimo), fino al suo amico forse più famoso, J.R.R. Tolkien. L’amicizia tra questi due dotti filologi fu la causa scatenante non solo della conversione dell’uno, ma, per entrambi, del passaggio dalla produzione di opere meramente scientifiche a quelle di narrativa e di saggistica in cui spesso finiva per prevalere (specie in Lewis) l’aspetto morale e spirituale. I due amici, infatti, amanti dell’epica e delle antiche leggende, non trovando molto interessanti i romanzi e i racconti contemporanei, si decisero a mettersi a scrivere, quasi a uso e consumo l’uno dell’altro. Ne scaturirono dei racconti e dei romanzi amati da intere generazioni di giovani e meno giovani.

Con Lewis e con Tolkien ci troviamo in quell’ambito in cui fede, ragione e immaginazione si toccano. I loro romanzi smentiscono il luogo comune per cui il mondo del mito, delle fiabe e della fantasia viene quasi automaticamente associato all’irrazionalità, alla pura “evasione”. Già Chesterton all’inizio del Novecento aveva smontato questo assioma; nel saggio Ortodossia ad esempio afferma che «Non è l’immaginazione che produce la pazzia; è la ragione. I giocatori di scacchi diventano pazzi, non i poeti; i matematici, i cassieri possono diventare pazzi, non gli artisti che creano (…) i critici sono assai più pazzi dei poeti». Il pazzo per Chesterton (che per Tolkien e Lewis ha rappresentato un solido punto di riferimento e di ispirazione) non è colui che ha perso la ragione, ma colui che ha perso tutto tranne la ragione. Ragione e fantasia non sono contrapposte tra di loro, così come ragione e religione non sono contrapposte tra di loro, perché la ragione e la fede sono contrapposte entrambe alla superstizione. Più sottile l’accusa mossa alla letteratura fantastica di essere una pericolosa “evasione”, una fuga dall’impegno e dalla realtà. A questa accusa ha ben risposto Tolkien, distinguendo l’evasione dalla diserzione: «perché un uomo dovrebbe essere disprezzato se trovandosi in carcere cerca di evadere per tornare a casa? Oppure, se non lo può fare, se pensa e parla di argomenti diversi che non siano carcerieri e mura di prigione? Il mondo esterno non è diventato meno reale per il fatto che il prigioniero non lo può vedere. Usando Evasione in questo senso, i critici hanno scelto la parola sbagliata e, ciò che più importa, confondono, non sempre in buona fede, l’Evasione del Prigioniero con la Fuga del Disertore». La fantasia per questi autori non è una resa, ma al contrario è un entrare dentro la realtà; non è una fuga dal mondo reale verso un Paradiso artificiale, ma, attraverso l’attivazione dell’immaginazione dell’artista, che a sua volta attiva l’immaginazione del lettore, è un metodo per una riappropriazione della realtà, un’intensificazione del rapporto esistente tra l’uomo e il mondo circostante, che non viene visto solo come oggetto, ma come segno. L’evasione per Lewis fa quindi rima con “visione”. Il lettore de Le Cronache di Narnia non si sente sperduto in un mondo distante, alieno, disordinato, dove regna solo il capriccio della fantasia dello scrittore, e a causa di questa arbitrarietà se ne smarriscono i confini, i contorni, il senso profondo. Al contrario l’esperienza che il lettore vive è quanto mai vicina al punto che da un certo punto di vista il mondo primario, quello dello scrittore e del lettore, e quello secondario, cioè quello della storia raccontata, coincidono; il punto essenziale è che si deve ritornare dal mondo secondario a vivere con spirito rinnovato in quello primario. Questo “rinnovamento” è lo spazio e la funzione della letteratura.

Lo dice bene Daniel Pennac quando parla della virtù paradossale della lettura, «quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso». La fantasia quindi non è distogliere lo sguardo da questo mondo, ma al contrario è il fissare lo sguardo con intensità sulle cose e guardare il mondo con occhi diversi. La parola fantasia viene da greco (fòs) e vuol dire Luce, quindi la fantasia non è evasione ma visione. E dice Tolkien: «dobbiamo in ogni caso pulire le nostre finestre in modo che le cose viste con chiarezza possono essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare e dalla possessività». Non è un caso che la protagonista delle Cronache di Narnia sia una piccola bambina che si chiama Lucy, cioè “luce”. Lucy è capace di vedere, di vedere “di più”, e qui entra in campo il cuore bambino, come ricorda la celebre battuta de Il piccolo principe: «L’essenziale è invisibile agli occhi. Non si vede se non con il cuore». Qui si tratta di cuore e, per il cristiano, di fede. Nella sua prima enciclica Benedetto XVI, la Deus caritas est, al punto n. 31 afferma che «il programma del cristiano, quello di cui l’uomo ha bisogno, è un cuore che vede». Nel giugno del 1936, ricordando Chesterton da poco scomparso, Mircea Eliade scrive un delicato articolo commemorativo in cui afferma: «Cerchiamo il miracoloso e il “romantico”, come cerchiamo la felicità, l’amore perfetto e la saggezza, senza accorgerci che sono intorno a noi, in attesa che li vediamo». Di questa attesa parlano i libri di Lewis instancabile ricercatore di una Gioia sempre pronta a coglierlo, a coglierci, di sorpresa.

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