L’ultimo Comune della Tuscia in ordine di tempo a mettere al bando il glifosate, il potente erbicida sospettato di essere cancerogeno è stato quello di Montefiascone con un’ordinanza emessa nei giorni scorsi dal sindaco Paolini.
Altri Comuni più piccoli, sempre in provincia di Viterbo, hanno da tempo approvato regolamenti che prevedono sanzioni e divieti per l’uso delle sostanze chimiche in agricoltura. Provvedimenti di amministratori coraggiosi, pensiamo ad esempio al primo cittadino di Gallese, che con i pochi mezzi a disposizione conducono una battagli quotidiana contro chi avvelena i campi. L’unica amministrazione che invece si sta rivelando ancora poco reattiva su certi temi sembra essere ancora quella di Viterbo, dove non esistono particolati limitazioni all’uso di queste sostenze. Pungolato dal consigliere dl Pd Martina Minchella, il sindaco Arena ha risposto qualche giorno fa in consiglio che il problema nel capoluogo non si pone perché non sono presenti coltivazioni intensive e finché non arrivano eventuali segnalazioni da parte della Asl la questione non è all’ordine del giorno. Poco è servito, da parte della Minchella, far notare al sindaco che per esempio la frazione di San Martino al Cimino è circondata da grandi castagneti. Senza dimenticare che spesso il glifosate è usato da parte di privati anche solo per “bruciare” l’erbaccia ai bordi delle strade. Argomenti chiuso. Da quasi un anno, inoltre, è ancora in sospeso la convocazione, richiesta sempre dal Pd, di un consiglio comunale straordinario sui dati di uno studio che parlava dell’incremento del numero di tumori nella Tuscia.
Intanto, mentre Viterbo dorme, ci sono tante altre città in Italia che sulla lotta a fitofarmaci e pesticidi segnano il passo. Se ne parla in un articolo uscito nei giorni scorsi sul quotidiano il Manifesto, intitolato “Pesticidi, tanti sindaci in campo”. Un mondo di buone pratiche ignote nel capoluogo della Tuscia. Ve lo riproponiamo.
C’è un’avanguardia nella lotta ai pesticidi in Italia: è un gruppo di sindaci di ogni colore che, con coraggio e inventiva, in assenza di strumenti normativi, hanno cominciato a mettere paletti per arginare non solo l’abuso ma anche l’uso dei fitofarmaci più tossici, dal glifosato ai pesticidi più usati in agricoltura e nella cura del verde pubblico.
SONO UNA SETTANTINA i comuni che si sono dati un regolamento anti-pesticidi, ciascuno calibrato sulle esigenze del proprio territorio. Se ne parlerà a Roma il 12 giugno in occasione di un convegno organizzato dalla campagna Cambialaterra, promossa da Federbio insieme con Isde-medici per l’ambiente, Legambiente, Lipu e Wwf (Museo Orto Botanico, largo Cristina di Svezia 24). Accanto ai sindaci anti-pesticidi siederanno i referenti dei ministeri dell’Ambiente, della Salute e delle Politiche agricole che in questi mesi stanno rivedendo il PAN, il Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari che, come di prassi, ogni 5 anni viene aggiornato e sottoposto a due mesi di consultazione pubblica, periodo in cui chiunque può fare osservazioni che verranno recepite a discrezione dei ministeri.
Le osservazioni dei sindaci sono già scritte nei loro regolamenti, buone pratiche che cominciano a girare nei consigli comunali di città o piccoli centri, soprattutto là dove i cittadini premono organizzando marce anti-pestidici (l’ultima il 19 maggio) e anche facendo pressione con gruppi molto frequentati sui social network (No pesticidi su Facebook conta 56mila iscritti).
A BELLUNO IL SINDACO JACOPO MASSARO, ex PD a capo di una coalizione civica, ha scommesso sul coinvolgimento e la partecipazione della popolazione e dei comuni contigui con l’obiettivo di creare la prima provincia interamente biologica d’Italia. «La sfida non è l’imposizione di regole, che non funzionerebbe, verremmo travolti dai ricorsi al Tar. Semmai vogliamo arrivare a scrivere regole condivise che possano accompagnarci verso una transizione a un modello di agricoltura più sostenibile». Oltre a regolamentare la distanza dalle abitazioni dei trattamenti sui campi, oltre alla messa al bando di prodotti nocivi, lo sforzo di Belluno (e dei comuni della provincia) è quello di accompagnare gli imprenditori verso la consapevolezza che oggi la scelta vincente è quella dell’agricoltura di qualità, sana e rispettosa dell’ambiente. Quando la Regione Veneto ha esteso anche al Bellunese la zona DOC per la produzione di Prosecco, questo territorio ha dovuto scegliere se ripetere il modello super-intensivo dei vigneti del Trevigiano oppure distinguersi e incamminarsi in un’altra direzione. I comuni della riva destra del Piave sono stati i primi ad attivarsi, la riva sinistra «ci sta arrivando», confida Massaro, che elenca le carenze del quadro normativo nel quale si trova ad operare. «A noi sindaci manca una potestà regolamentare chiara, siamo soggetti ai ricorsi che potrebbero venire da grandi aziende, spesso ci manca un supporto scientifico sui prodotti, ci mancano risorse per promuovere i biodistretti perché i fondi vengono dati solo alle aziende, ma non alle istituzioni, ci mancano risorse per offrire consulenza agronomica alle aziende che vogliono entrare in conversione, o per progetti di certificazione partecipata dei prodotti che sgraverebbero le aziende dai costi aggiuntivi del regime biologico. Inoltre ai sindaci manca la possibilità di incidere sul tipo di insediamenti che operano nel territorio».
SU QUEST’ULTIMO PUNTO HANNO LE IDEE un po’ diverse a Vallarsa, piccolo comune della provincia di Trento a sud di Rovereto, dove dal 2014 è in vigore il più rivoluzionario dei regolamenti anti-pesticidi. Qui l’ex-sindaco e oggi assessore Geremia Gios, professore ordinario di Economia Agraria all’Università di Trento, ha ribaltato la concezione secondo la quale agli agricoltori biologici serve una certificazione: a Vallarsa sono gli agricoltori convenzionali a dover certificare di non recare danno all’ambiente e per farlo devono dimostrare che le sostanze che usano non sono dannose. In assenza di questa certificazione l’azienda agricola che vuole operare a Vallarsa deve fornire al comune o una polizza assicurativa oppure una fideiussione (di 10 o 20 anni nel caso si utilizzino prodotti Ogm) a garanzia degli eventuali danni che dovessero essere arrecati alla comunità per l’uso di sostanze nocive. Il regolamento-capestro per chi non sceglie il bio è stato adottato anche dal successore di Gios, Massimo Plazzer, che si dice abbastanza sicuro della sua legittimità: «Si basa su due principi cardine del diritto ambientale: quello di precauzione e chi-inquina-paga, sta in piedi – ci dice – e nella realtà non ci siano mai trovati ad applicarlo. Le aziende hanno capito lo spirito e hanno apprezzato: è una forma di auto-tutela per un comune dove l’agricoltura di montagna è già biologica e dove cerchiamo di valorizzare la produzione non intensiva delle malghe e tutelarla da eventuali incursioni».
SI SCOPRE UN MONDO DI BUONE PRATICHE, fantasia ed estrema competenza nei regolamenti anti-pesticidi: a Carmignano (Prato), dopo la terza ordinanza anti-glifosato è stato adottato anche un regime biologico per la gestione del verde pubblico e aperto uno sportello Verde al quale gli agricoltori si possono rivolgere per migliorare la gestione delle colture. A Occhiobello (Rovigo) il regolamento non si limita a porre divieti alle sostanze tossiche, anche nelle aree private, ma elenca pratiche alternative ai diserbo, da quello manuale a quello meccanico o a vapore. A Malosco, comune della Val di Non immerso nella coltivazione intensiva dei meli, il sindaco oltre a imporre una fascia di rispetto di 50 metri da abitazioni, strade, parchi e giardini dove sono vietati i trattamenti, obbliga le aziende convenzionali a dotarsi di barriere vegetali attorno ai propri terreni per limitare il diffondersi dei fitosanitari e prescrive che i trattamenti siano fatti solo con lance azionate a mano o con ugelli anti-deriva.
I controlli sono in carico alla polizia municipale, ma i sindaci dicono di poter contare su pattuglie supplementari di cittadini pronti a segnalare ogni violazione pur di tutelare la loro salute.