Dopo i deludenti risultati elettorali, che nella Tuscia si sono palesati con il voto europeo e di più con quello delle comunali, nel Partito democratico provinciale è arrivato il momento di interrogarsi sul futuro.
Prima, un passo indietro. Rispetto al 2014, il Pd ha perso 30 mila voti. Ma il confronto è addirittura mortificante se viene fatto con le politiche del 2018. Quest’anno infatti, pur essendo state inglobate nella lista democratica molte realtà assenti dodici mesi fa (dalla sinistra extra Pd, rappresentata da Smeriglio, ai movimenti della Lorenzin e di Prodi), non si è visto un solo voto in più. Anzi, all’appello ne mancano svariati.
Le proporzioni della sconfitta assumono addirittura i connotati della catastrofe quando si vanno ad analizzare le elezioni dei sindaci e dei consigli comunali. Sono venute meno alcune amministrazioni storiche come Nepi, Capodimonte e Vejano; altre, finora alternativamente di centrodestra o centrosinistra (San Lorenzo Nuovo, Tuscania, Bolsena, Ischia e Tessennano) restano saldamente ancorate alla destra; ma soprattutto sono letteralmente sparite dalla cartina geografica Civita Castellana e Tarquinia, i comuni più importanti dopo il capoluogo. Nella cittadina etrusca, se vince Giulivi il Pd piazzerà solo 1 consigliere, 2 se vince Moscherini. In quella delle ceramiche se vince Caprioli, come tutto lascia pensare, 2 consiglieri e festa finita.
Questi numeri non lasciano spazio a dubbi: gli elettori hanno bocciato, senza se e senza, ma il modello Panunzi, l’uomo che, dalla sua posizione privilegiata alla Pisana, spadroneggia dal 2013 per lungo e per largo in tutti e 60 i comuni della provincia, forte da un anno a questa parte anche della presenza dell’assessore Troncarelli. La dimostrazione di questa bocciatura viene confermata dalle preferenze dei candidati: Massimiliano Smeriglio, sostenuto dal consigliere regionale e artefice di una campagna elettorale fatta di cene, aperitivi e incontri in ogni dove, si è fermato poco oltre quota seimila. Ha preso qualcosa in più Lina Novelli, che però non ha fatto votare Smeriglio a Canino. Allo stesso tempo ha raggiunto da sola quasi quota cinquemila Simona Bonafè, espressione di quell’area moderata e renziana marginalizzata e cannibalizzata con inusitata violenza proprio da Panunzi. Ciò nonostante, questa area (vedere anche le preferenze di Danti e Sassoli) ha resistito con forza e contribuito con il quaranta per cento al risultato del Partito democratico.
Tra l’altro, non può sfuggire neanche il confronto tra le preferenze ottenute da Panunzi alle regionali 2018 e quelle di gran lunga inferiori portate a casa dai candidati da lui appoggiati quest’anno. Non può sfuggire perché si palesa in questo caso un’altra verità e cioè come il modello Panunzi (basato sulla gestione del potere regionale, esplicatosi ad esempio con la gestione della Asl e dell’Ater) sia stato finora più funzionale ai voti personali del consigliere regionale che non all’interesse globale del partito. D’altra parte, solo così si possono spiegare anche le alleanze trasversali strette qui con Forza Italia e là con Fratelli d’Italia, a seconda dei territori, che hanno snaturato l’unità del Pd, che ha finito così col pagare la mancanza di una identità forte riconoscibile dall’elettorato.
Flop del modello Panunzi, in altre parole, che ha fatto arroccare il Pd su posizioni ex Ds, togliendogli quell’immagine di centrosinistra che prima d’ora in provincia di Viterbo aveva sempre pagato. Il consigliere regionale ha pensato di poter ovviare a ciò stringendo patti territoriali con esponenti di altri partiti di centrodestra nei vari paesi, ma ciò, come visto, se è vero che ha fatto ingrassare le sue preferenze, ha fatto dimagrire il Pd. Flop del modello Panunzi oltretutto avvertito, oltre che dall’area renziana, anche dalla sinistra sposettiana, come stanno a certificare le preferenze tributate a Bartolo, spiegabili solo con un rinnovato dispiegamento di forze da parte dell’ex tesoriere dei Ds.
In prospettiva futura questo quadro è apocalittico. Viterbo, infatti, stando così le cose, si potrebbe ritrovare molto presto anche senza consigliere regionale. Potrebbe accadere se Zingaretti dovesse dimettersi da presidente. E alla luce di tutto ciò e della linea politica il più possibile pluralista, ribadita proprio da Zingaretti nell’ultima direzione nazionale, che sembra arrivato a maturazione anche a Viterbo il momento in cui ridisegnare un nuovo Partito democratico. Di ciò deve prendere atto Bruno Astorre. Bisogna capire che con le tessere si vincono i congressi, ma si perdono le elezioni. Bisogna capire che senza il coinvolgimento di tutti nella vita del partito e delle istituzioni in cui esso è rappresentato il Pd non andrà lontano.