Dall’osservatoreromano riprendiamo e pubblichiamo
I ripetuti raid terroristici che in queste settimane hanno colpito il Burkina Faso esigono un’attenta disamina. È evidente che nel mirino di queste cellule eversive di matrice jihadista vi sono coloro che si oppongono al loro delirio di onnipotenza, tra cui figurano in primis i cristiani. Occorre rilevare, comunque, che l’estremismo islamista, nella fascia saheliana, trova il suo incipit nella guerra civile algerina degli anni ‘90. In quel sanguinoso conflitto, inizialmente, s’impose il Gruppo Islamico Armato (Gia), militarmente operativo dal 1992 dopo il colpo di Stato dei militari in Algeria che aveva estromesso ed arrestato gli esponenti del Fronte Islamico di Salvezza (Fis), il partito filo-islamico, allora vincitore delle elezioni. Successivamente, nel 1996, Hassan Hattab, un ex paracadutista, accusò il Gia di colpire indiscriminatamente, negli attacchi terroristici, la popolazione civile, un modus operandi che alienava le simpatie ed il sostegno della gente. Per questo motivo decise di fondare la propria formazione: il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), con lo scopo di rovesciare il governo algerino ed istituirvi uno Stato islamico.
Dopo anni di scontro con le autorità e l’esercito regolare, senza riuscire però a prendere il potere, questo gruppo armato si ritirò nelle isolate zone meridionali del Paese, affiliandosi nel 2005 ad al-Qā‛ida, con la denominazione Al-Qā‛ida nel Maghreb islamico (Aqmi). Nella pratica, il gruppo intendeva così colpire le autorità algerine, collocando la propria azione eversiva nella cornice di un più ampio scenario internazionale. Questo indirizzo venne sancito il 3 gennaio del 2007, dall’emiro Abdel Malik Droukdal alias Abu Mussab Abdel Woudou, il quale annunciò in un video, diffuso attraverso la rete internettiana, la sua intenzione di associarsi a Osama Bin Laden. Nel filmato, oltre alla sua manifestata simpatia per Al-Qā‛ida, l’emiro attaccò il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika e la sua politica di concordia nazionale fatta, secondo lui, di repressione e di presunte mediazioni, accusando le autorità del suo Paese di sfruttare (ma soprattutto di dilapidare) le risorse naturali dell’Algeria (gas e petrolio). Inoltre, puntò il dito contro la Francia e gli Usa per la loro politica, da lui giudicata, neo-coloniale nei confronti della comunità musulmana. Da allora Gspc cominciò a diffondersi lungo il Sahel, particolarmente in Mauritania, Mali, Niger e Ciad. La situazione è purtroppo degenerata a seguito del dissolvimento del regime libico di Gheddafi i cui arsenali sono stati razziati da numerose formazioni di matrice jihadista, tra cui l’Aqmi che fin dal 2007 aveva stabilito stretti contatti con il Gruppo Combattente Islamico Libico (Lifg). Nuovi sviluppi sono avuti nella prima metà del 2012, durante l’insurrezione Tuareg nella tormentata regione maliana dell’Azawad. La debolezza del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (Mnla) rese possibile nelle regioni settentrionali del Mali l’ascesa e l’affermazione di formazioni estremiste islamiche del calibro dell’Anṣār al-Dīn (che significa letteralmente “Ausiliari della religione” islamica) e l’affermazione dell’Aqmi di cui sopra e del Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (Mujao). Le vicende di sangue che stanno interessando il Burkina Faso, Paese strategico della fascia saheliana, rientrano in questo perimetro espansivo dell’eversione jihadista. E non da ora. Basti pensare, ad esempio, all’attentato perpetrato, a cavallo tra il 15 e il 16 gennaio del 2016, dall’Aqmi, nella capitale burkinabé, Ouagadougou. I terroristi, allora, colpirono l’hotel Splendid, il caffè-ristorante Cappuccino e l’hotel Yibi, frequentati dagli occidentali residenti nel Paese, causando la morte di trenta persone. Pertanto, i recenti attacchi alla comunità cattolica locale, ultimo dei quali quello avvenuto domenica scorsa in una chiesa cattolica a Toulfe, nel nord del Paese, costituiscono un ulteriore sviluppo dell’offensiva islamista.
Inquadrare, comunque, la galassia delle forze d’ispirazione jihadista in Africa, esclusivamente nella prospettiva di una lotta globale contro l’Occidente, sotto una struttura di comando centralizzata indicata come Al-Qā‛ida o Is, non rende conto della complessità del fenomeno in cui entrano in gioco anche questioni locali, proprie dei singoli Stati in cui operano le suddette cellule eversive. Ad esempio, i movimenti al Shabaab in Somalia o Boko Haram in Nigeria hanno trovato ispirazione nei conflitti in atto nei rispettivi territori tra le oligarchie locali, per il controllo del potere. Queste formazioni non solo erano già preesistenti rispetto all’inizio della crisi libica, ma hanno sempre colpito chiunque osteggiasse il loro progetto: musulmani, cristiani e animisti. E ogni volta che hanno perpetrato attentati contro chiese e istituzioni cristiane (gli al Shabaab in Kenya e i Boko Haram in Nigeria e nel vicino Camerun) l’hanno fatto perché queste azioni sarebbero state riprese dalle testate internazionali main stream, avendo così risonanza a livello internazionale. Il concetto, poi, di network, indicante una struttura ramificata che non si esaurisce solo esclusivamente nelle aree mediorientali, ma anche in Africa, serve a molti gruppi armati ad attribuire un’identità e un peso politico alla lotta che perseguono contro le forze governative che vi si oppongono. Dietro le quinte, è chiaro, si celano gli interessi economici del salafismo più intransigente che rappresenta un fattore altamente destabilizzante per il continente. Attualmente, i Paesi dell’Africa Subsahariana maggiormente esposti all’estremismo islamico sono una decina: il Burkina Faso, il Camerun, la Repubblica Centrafricana, il Ciad, l’Eritrea, l’Etiopia, il Kenya, il Mali, la Mauritania, il Niger, la Nigeria, la Somalia, il Sudan settentrionale, la Tanzania e l’Uganda. A ciò si aggiunga il fatto che dietro le quinte, si sta verificando in Africa, come in passato, un notevole afflusso di armi e munizioni, unitamente allo sfruttamento indiscriminato delle commodity (materie prime). Si tratta di traffici diabolici ed invasivi che spesso le autorità locali non riescono a contrastare adeguatamente. Il jihadismo, parafrasando un proverbio africano, è come «quel serpente che ha già posto le sue uova nel nido delle aquile».
di Giulio Albanese