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Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese
L’emergenza alimentare rappresenta la vexata quaestio dell’Africa sub-sahariana da molti anni. Il recente rapporto congiunto sulla sicurezza alimentare e la nutrizione in Africa pubblicato lo scorso febbraio dalla Fao e dall’Economic Commission for Africa (Eca) rileva che nella fascia sub-sahariana vi sono 237 milioni di persone — circa un quinto della popolazione del continente — che soffrono di denutrizione cronica. Si tratta di un segnale negativo che mette gravemente in dubbio la possibilità di sradicare la fame, conseguendo gli Obiettivi di Malabo 2025 e l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, in particolare il secondo Obiettivo di sviluppo sostenibile (SDG2).
Il deterioramento della situazione è dovuto a diversi fattori che spesso si sommano tra di loro: dalla difficile situazione economica globale, al peggioramento delle condizioni ambientali; dai conflitti che insanguinano numerosi paesi, alla variabilità climatica e agli eventi estremi. Da rilevare che già nel lontano 1944 Jean-Paul Harroy, prima ancora d’essere nominato governatore belga in terra ruandese, scrisse la sua tesi di laurea sul tema: Afrique, terre qui meurt, la dégradation des sols africains sous l’influence de la colonisation (“Africa, terra che muore: il degrado dei suoli africani sotto l’influenza della colonizzazione”). E alla fine degli anni 70 René Dumont, agronomo di fama mondiale, rincarava la dose stigmatizzando il cronico dramma dei paesi del Sahel, la cui ciclica carestia provocava già allora «dei sussulti d’interesse, fortemente equivoci». E sì perché quarant’anni fa si versavano come oggi fiumi d’inchiostro per denunciare le solite emergenze alimentari che, com’è noto, determinano un numero indicibile di vittime, a causa anche di responsabilità umane.
Sempre Dumont, in un saggio pubblicato nel 1980 dal titolo più che emblematico, L’Afrique étranglée (L’Africa strangolata) scriveva: «Mentre il Sahara avanza dappertutto, al nord e al sud, i paesi ricchi continuano ad importare l’arachide e il cotone grezzo, le cui coltivazioni rovinano i terreni, e a esportare prodotti industriali, macchine e surplus di cereali. E affluiscono con tutte le spese relative, tutti gli esperti, commissioni, agenzie internazionali, con le valigie colme di talismani, gadget… e altro fumo negli occhi». Dumont puntava il dito sia contro le burocrazie della fame che «vivono alle spalle del Terzo Mondo e per esse la fine del sottosviluppo significherebbe disoccupazione», sia nei confronti delle borghesie africane che «hanno preso gusto al potere e vi si aggrappano preoccupate solamente di garantire la loro permanenza».
Viene spontaneo chiedersi come potessero nel passato sopravvivere le popolazioni del Sahel visto che, stando agli esperti, fenomeni meteorologici avversi come le prolungate siccità affondano le radici in tempi immemorabili. «Lo si sapeva — scrive Dumont — quindi lo si prevedeva e, nelle buone annate, si riempivano i granai di piccolo miglio e più a sud, in terre argillose, di grosso miglio, il sorgo». Ecco perché, suggeriva l’agronomo francese, «occorre ricominciare come nei tempi antichi, prima della colonizzazione, a formare delle scorte alimentari oppure dei granai collettivi, al posto delle cooperative imposte e controllate dalle autorità, e da cui traggono vantaggio soprattutto i loro dirigenti». Insomma, Dumont suggeriva saggiamente di ricreare raggruppamenti economici, sociali e politici, diretti dalle classi rurali, capaci di opporsi in modo non violento all’ingordigia dei potenti.
Una cosa è certa: gli aiuti d’emergenza dovrebbero rimanere una soluzione temporanea, all’unico scopo di consentire a una popolazione di sopravvivere a una determinata situazione di crisi, mentre invece quasi sempre si traducono in una sorta d’espediente per rinviare la soluzione strutturale del problema. Se da una parte occorre vigilare sulle deviazioni — quali ad esempio l’arrivo spesso tardivo o non confacente degli aiuti ai bisogni, la loro distribuzione mal organizzata o distorta dall’intervento di fattori politici, etnici o dal clientelismo, furti e corruzione, che impediscono agli aiuti di giungere ai più indigenti — dall’altra s’impone un salto di qualità nelle forme d’intervento, investendo risorse nella prevenzione di queste calamità. Solo così gli aiuti di emergenza potranno considerarsi alla stregua di una incisiva azione di solidarietà internazionale, potenziando soprattutto la concertazione tra i vari partner della catena: stati, autorità locali, organismi non governativi e realtà ecclesiali.
Da rilevare che nell’ambito della sicurezza alimentare, destano grande apprensione le speculazioni finanziarie legate alla compravendita di fondi di investimento. Si tratta di futures sui prodotti agricoli che non vengono più solo acquistati da chi ha un interesse diretto in quel determinato mercato seguendo le tradizionali leggi della domanda e dell’offerta, ma anche da parte di soggetti finanziari come i fondi pensione, che investono grandi somme di denaro con l’obiettivo esclusivo di ottenere il miglior rendimento. Ecco che allora alla cosiddetta batosta climatica, si aggiungono i meccanismi di un sistema finanziario che sta avendo ricadute drammatiche sulle popolazioni africane.
Parliamo, peraltro, di paesi in cui la gente destina più dell’80 per cento del proprio reddito al fabbisogno alimentare e che nell’attuale congiuntura non sono assolutamente in grado di far fronte all’aumento dei prezzi del cibo. Non v’è dubbio, allora, che il problema della fame non potrà risolversi se non promuovendo le politiche di sicurezza alimentare per soccorrere i tanti miserabili minacciati dalla fame: per debellarla e non rinviarne la soluzione. È fondamentale, dunque, andare al di là dell’approccio per così dire paternalistico tipico di certa propaganda assistenziale che acuisce a dismisura la dipendenza dei paesi africani. Non basta neanche concepire gli interventi trasferendo da un continente all’altro l’enciclopedia dei saperi e delle conoscenze, ma occorre avere il coraggio di promuovere la crescita integrale della persona e delle comunità riconoscendone i diritti inalienabili.
Come ha sottolineato pertinentemente il professor Felice Rizzi, uno dei massimi esperti di cooperazione allo sviluppo, «troppo spesso la lotta contro la povertà diventa l’applicazione delle logiche umanitarie di urgenza che non incidono sulle cause del sottosviluppo». La cooperazione è molto di più, implicando un cambiamento radicale nella visione politica degli obiettivi dello sviluppo, ma è anche rimodulazione dei meccanismi economici e sociali che impediscono il conseguimento di questi obiettivi. Per dirla con le parole di un altro grande pensatore sui temi dell’etica della cooperazione, Christian Coméliau, «la povertà non può essere intesa come una fatalità del destino, né uno stato, né tanto meno una categoria sociale, ma un processo di esclusione determinato dalle ineguaglianze strutturali».
L’interesse è globale, non foss’altro perché oggi ripensare la cooperazione in questi termini, per lottare efficacemente contro inedia e pandemie, significa, ad esempio, poter finalmente governare in maniera perspicace il fenomeno migratorio. È il caso di citare un vecchio slogan diffuso nei circoli della cooperazione negli anni 80, ai tempi della gravissima carestia che colpì l’Etiopia: «Se la fame si nutrisse di parole il mondo sarebbe già sazio».