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Home » Politica » Fino a quando gli interessi economici di pochi possono ledere ambiente, paesaggio, salute?

Fino a quando gli interessi economici di pochi possono ledere ambiente, paesaggio, salute?

9 Aprile 2019

Dopo la regista Alice Rohrwacher, anche il fondatore di Slow Food Carlo Petrini interviene pubblicamente nel dibattito sulle monocolture. E, per quanto riguarda la Tuscia, su quella della nocciola. Di seguito l’articolo apparso nei giorni scorsi sul quotidiano La Stampa.

A poche settimane dal voto amministrativo ed europeo, pare proprio che il tema della difesa del suolo non faccia parte dei programmi elettorali dei partiti. Si fa un gran parlare di dissesto idrogeologico immediatamente dopo le tante disgrazie ambientali, salvo poi ritornare molto in fretta a promuovere lo sblocco di qualsiasi grande opera come principale soluzione alla crisi, sempre a scapito di ambiente, suolo e territorio.

Eppure, quando parliamo di turismo e di agricoltura ben sappiamo quanta importanza abbiano la tutela del paesaggio e la produzione alimentare per l’economia del Paese.

I sintomi più evidenti di questo disinteresse sono certamente la cementificazione selvaggia e l’erosione sistematica del terreno agricolo, che troppo spesso va a braccetto con l’estensione di monocolture intensive su ampie aree del territorio nazionale. Coltivazioni di un singolo prodotto che portano con sé grandi quantità di prodotti fitosanitari che molte volte incidono in maniera negativa sulla salute degli stessi contadini coinvolti nella filiera. Più in generale, siamo in presenza di processo che sta trasformando paesaggi storici caratterizzati da diverse colture e da una varietà che era parte integrante della loro bellezza in una distesa monocromatica e omogenea. In questo momento, oltre al fenomeno del prosecco nel Nord-est del Paese, stiamo assistendo a un incremento esponenziale della coltivazione della nocciola in quasi tutte le regioni.

La domanda di nocciole da parte di grandi aziende dolciarie e multinazionali conquista migliaia di ettari agricoli in zone dove per tradizione trovavano dimora altre coltivazioni. Un’area molto ampia tra Lazio, Umbria e Toscana ha recentemente cambiato drasticamente il paesaggio, oggi dominato proprio da una monotona distesa di noccioleti. Con una garbata lettera indirizzata ai Presidenti delle tre regioni interessate, la regista Alice Rohrwacher lanciava qualche tempo fa un appello per chiedere alle istituzioni di affrontare questo problema, per garantire un patrimonio che è di tutta la comunità e non solo degli agricoltori. Apriti cielo! La risposta seccata è stata quella di bollare questa legittima preoccupazione come un atteggiamento nostalgico o passatista.

Possibile che non si capisca che compito della politica è di governare i processi di trasformazione salvaguardando gli interessi di tutti? Fino a quando gli interessi economici di pochi possono ledere l’ambiente, il paesaggio, la salute delle persone? Possibile che dopo anni di speculazioni non risultino evidenti quelle esternalità negative che noi tutti paghiamo in termine di cura dei beni comuni? Il mondo agricolo deve prendere coscienza che la monocoltura intensiva è l’anticamera di una situazione di insostenibilità ambientale e sociale. Un tempo non lontano si sceglievano le colture nel rispetto delle peculiarità del terroir (esposizione, caratteristiche del terreno, microclima, financo storia e cultura locali). In un’ottica di lungo termine e di conservazione degli asset strategici del settore primario (il capitale naturale, i semi, i saperi) queste scelte pagavano e il giusto rapporto tra produzione, adattamento alle condizioni pedoclimatiche e rotazione dei terreni generava prodotti di buona qualità. L’equilibrio tra domanda e offerta lasciava anche all’agricoltore una voce in capitolo sulla determinazione del prezzo finale.

Oggi le scelte produttive sono totalmente condizionate dalla domanda della grande industria, che detta anche i prezzi, e i contadini sono costretti a diventare lavoratori a cottimo. Diversificare le colture sul proprio fondo è una delle qualità più preziose di ogni agricoltore, è l’espressione più alta della sua professione. Non lo espone alle alterne fortune di questo o di quel prodotto; mantiene in essere una biodiversità preziosa per il territorio e rafforza l’economia locale. Non c’è alcun dubbio, la grande sfida del secolo si giocherà nel valorizzare la biodiversità produttiva, in un’ottica di conservazione della fertilità dei suoli e di adozione di pratiche agroecologiche, favorendo un’economia in grado di rigenerare i territori.

Ma torniamo alle nocciole. In Piemonte, in cinque anni è triplicata la superficie di noccioleti. Nei prossimi anni con la produzione triplicata si rischiano meno qualità, meno sostenibilità, meno differenziazione della produzione e maggiore dipendenza da un unico cliente che decide i prezzi. Se la nocciola in Italia diventa una commodity le grandi industrie faranno affari ma i contadini si dovranno accontentare di prezzi al ribasso. Anche in Langa, dove trova da sempre dimora la tonda gentile, delle nocciole la più pregiata, gli impianti si stanno estendendo su ampie aree di pianura (e su tutto il territorio della Provincia di Cuneo, anche dove la nocciola non si era mai coltivata). Un tempo ogni coltivazione aveva il suo habitat e questo era caratterizzato dalla presenza di alberi, siepi, piccoli boschi naturali ripari per colonie di uccelli e altri animali. Distruggere questi ecosistemi stabili è un errore madornale. Un po’ di buon senso dovrebbe ispirare ogni scelta agricola; il vecchio detto piemontese “esageruma nen” (non esageriamo) merita molta attenzione. Per l’appunto, cari contadini con le nocciole ”esageruma nen”.

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