Riproponiamo un articolo di Luigi Manconi uscito oggi sul Corriere della Sera in cui si parla dell’ultimo presunto caso di violenza avvenuto nel carcere di Viterbo ai danni di un detenuto, che sostiene di essere stato picchiato da alcuni agenti penitenziari.
Qualche settimana fa, proprio nelle ore in cui si celebrava il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, il quotidiano Il Dubbio pubblicava alcune notizie che – se conferma da riscontri oggettivi – sarebbero di estrema gravità.
All’articolo 5 di quella Dichiarazione, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, si legge che nessun individuo potrà essere sottoposto a “punizioni crudeli, inumane o degradanti”: sembra essere proprio questo il caso del detenuto Giuseppe De Felice, il quale avrebbe subito, nei primi giorni di dicembre, una “punizione crudele” all’interno del carcere di Viterbo a opera di una decina di poliziotti penitenziari con il volto coperto. Come si ripete stancamente in questi casi, il condizionale è d’obbligo, ma più di una circostanza e alcuni indizi confermerebbero quanto raccontato dalla vittima, dalla moglie e da altri carcerati.
Come in ogni tradizione criminale e come in ogni racconto dell’orrore, i fatti o i presunti fatti acquistano consistenza e credibilità in ragione di ciò che evocano, dello scenario a cui rimandano e del clima in cui si riproducono. E allora, secondo quanto dichiara il consigliere regionale del Lazio, Alessandro Capriccioli, quello di Viterbo “ha fama di essere un carcere punitivo”. Altroché. Nel giugno scorso, il Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà, Stefano Anastasia, ha presentato un esposto alla Procura di Viterbo nel quale si legge che un certo numero di detenuti da lui incontrati in quel carcere “hanno riferito di essere stati vittime per mano di agenti di polizia penitenziaria”, una parte di essi mostrava “segni evidenti di contusioni e lacerazioni sul corpo”. Si riportavano poi, le testimonianze di detenuti (tutti stranieri) che descrivevano modalità e dettagli tali da rendere credibili i racconti; e le vittime sostenevano “di non essere state visitate da medici se non dopo diversi giorni o, in altri casi, dopo diversi mesi”.
In un successivo esposto, della fine di luglio, il Garante ricordava il caso del ventunenne Sharaf Hassan, il quale aveva riferito di aver subito violenze tali da procurargli “lesioni in tutto il corpo e, con molta probabilità anche la lesione del timpano sinistro”. Il giovane diceva al Garante di avere “molta paura di morire”. La quale cosa, scrive ancora il professor Anastasia “è avvenuta effettivamente il 30 luglio del 2018 presso l’ospedale di Belcolle di Viterbo” dopo che Sharaf era stato ritrovato impiccato nella sua cella. In realtà, la leggenda nera dell’istituto penitenziario di Viterbo, sembra ancor più antica nel tempo, intessuta di violenze e autolesionismo, di paura e di omertà. E’ come se esso costituisse una sorta di zona franca, un territorio di impunità che sopravvive ai cambi di direttori e persino di comandanti della polizia penitenziaria. E colpiscono soprattutto, la reiterazione e ciò che appare come l’inarrestabile riprodursi all’infinito del fenomeno.
Giuseppe De Felice, quando racconta alla moglie perché ha il volto tumefatto e il corpo marchiato da lividi, sostiene che la decina di agenti penitenziari che lo avrebbero picchiato avevano i guanti bianchi e una mazza nera. Un dettaglio che se vero, richiama come “Funny games” “Arancia meccanica”. E che sembra alimentare quell’immagine fosca del carcere di Viterbo, sovrapponendo all’esercizio dell’abuso il senso di una ritualità di lungo corso, che sembra promettere l’impunità da conseguenze legali e disciplinari. E ci si potrebbe consolare, si fa per dire, se quello fosse l’unico luogo di privazione della libertà dove si consumano abusi e illegalità, ma purtroppo non è affatto così. E già sorprende che, alle prime notizie, sulle violenze che avrebbe subito De Felice, non vi sia stata una pronta replica e una smentita da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Tutto ciò mentre, come ha scritto su queste colonne Luigi Ferrarella pochi giorni fa, il sovraffollamento raggiunge nuovamente picchi elevatissimi e il sistema penitenziario rimane irreparabilmente fuori da qualunque discussione pubblica.
A ricordarcene l’inciviltà e talvolta l’infamia, restano solo la santa e folle tenacia di Rita Bernardini e l’attenzione di pochi altri come Alessandro Capriccioli e Riccardo Magi di +Europa e Walter Verini del Partito democratico. E non abbiamo sentito, ma forse a causa della nostra distrazione, una sola parola da parte del ministro della Giustizia.