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Home » Italia » Censis: “Gli italiani incattiviti dalla delusione”

Censis: “Gli italiani incattiviti dalla delusione”

8 Dicembre 2018

Nel rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese si descrive una nazione pessimista e in declino, senza miti ed eroi. Da Huffington Post proponiamo questo articolo (leggi l’originale). 

Delusione, rancore e cattiveria. Questi i sentimenti che animano gli italiani secondo il 52esimo Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese. Un “sovranismo psichico” prima che politico – si legge nel testo – ha incattivito i cittadini delusi dallo “sfiorire della ripresa” e dall’attesa, vana, di un cambiamento miracoloso.

Nel documento gli italiani vengono descritti come funamboli che hanno accettato di compiere un salto verso l’ignoto, che stanno camminando “sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo”. Quella della popolazione italiana è stata, secondo i ricercatori del Censis, “quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vincesse sull’attuale”.

Il disagio, si legge nel report, “assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria, dopo e oltre il rancore, diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. Il processo strutturale chiave dell’fattuale situazione e l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive”.

Bersaglio della rabbia rom e migranti

E capro espiatorio, in questa situazione, diventano rom e migranti: il 69,7% degli italiani non vorrebbe i rom come vicini di casa e il 52% è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani. La quota raggiunge il 57% tra le persone più povere. Da qui la conclusione del Censis: “Sono i dati di un cattivismo diffuso che erige muri invisibili ma spessi”. Il 63% degli italiani vede in modo negativo l’immigrazione dei Paesi non comunitari contro una media Ue al 52%. Il 45% non tollera anche quelli comunitari (in Europa la media è al 29%). I più ostili sono gli italiani più fragili: il 71% di chi ha più di 55 anni e il 78% dei disoccupati, mentre il dato scende al 23% tra gli imprenditori. Ma perché tanta rabbia e diffidenza? Il 58% degli italiani risponde “gli stranieri ci tolgono il lavoro”, il 63% dice invece sono un peso per il welfare mentre il 37% crede che il loro impatto sull’economia sia favorevole.

La fiducia nella politica dell’annuncio e la diffidenza nei confronti del progresso

Il sistema sociale, attraversato da rancore e delusione, “guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità” e non crede più nel progresso, perché teme gli sconvolgimenti della transizione. Il popolo tende a compattarsi nell’idea di una nazione sovrana supponendo che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza siano tutte contenute nella non-sovranità nazionale”. È la “politica dell’annuncio”, quando invece “la responsabilità della classe dirigente, il ruolo dell’establishment stanno nel proporre una prospettiva nel futuro”. Il Censis fa riferimento all’aggettivo “epigonale” per dire che l’annuncio, senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al progetto politico, da profetico si fa imitatore.

La paura di non trovare lavoro e il pessimismo per il futuro

Il 44,5% degli italiani è pessimista sul futuro del Paese, contro il 18,8% che si dichiara ottimista. La preoccupazione non riguarda tanto la situazione delle famiglie ma gli scenari evolutivi. Negli ultimi 5 anni, infatti, la capacità di spesa delle famiglie ha mostrato un progresso e nel 2018 gli ottimisti si attestano al 42,2%, circa 12 punti in più rispetto al 2013; risalgono però i pessimisti dal 23,2% del 2016 al 26,8% del 2018. Lo studio del Censis mostra inoltre come il 69% dei cittadini italiani esprime il timore di rimanere senza un’occupazione contro una media europea del 44%.

Anche per chi ha lavoro le notizie non sono ottime: la busta paga degli italiani è aumentata tra il 2000 e il 2017 di soli 400 euro annui, poco più di 32 euro al mese. Un incremento dell’1,4%. Il dato diventa più chiaro se si fa il confronto con gli altri Paesi europei: basti pensare che in Germania l’incremento è stato del 13,6% (quasi 5mila euro) e in Francia del 20,4% (oltre 6mila euro). Quindi, se nel 2000 il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, nel 2017 è sceso al 74%.

Chiaro il divario nella spesa fatta dai nuclei familiari: nel periodo 2014-2017 le famiglie operaie hanno registrato un -1,8% in termini reali della spesa per consumi, mentre quelle degli imprenditori un +6,6%. Se si considera 100 la spesa media delle famiglie italiane, quelle operaie si posizionano oggi a 72 (erano a 76 nel 2014), quelle degli imprenditori a 123 (erano a 120 nel 2014).

Sanità: il divario tra Nord e Sud

È convinzione diffusa che il rapporto dei cittadini con il Servizio sanitario sia fortemente differenziato per varie cause: dalla territorialità dell’offerta alla condizione socio-economica, all’età delle persone. Il difficile accesso alla sanità, sottolinea la ricerca, genera costi aggiuntivi, con la conseguente corsa a comportamenti opportunistici e una crescente sensazione di disuguaglianze e ingiustizie, con la convinzione che ognuno deve pensare a se stesso. Più della metà degli italiani (54,7%) ritiene che in Italia le persone non abbiano le stesse opportunità di diagnosi e cure. Lo pensa il 58,3% dei residenti al Nord-Est, il 53,9% al Sud, il 54,1% al Centro e il 53,3% al Nord-Ovest. Addirittura ci sono oltre 39 punti percentuali di differenza nelle quote di soddisfatti tra il Sud e le isole e il Nord-Est, che registra il più alto livello di soddisfazione tra le macroaree territoriali. Emblematici sono i dati sul grado di soddisfazione rispetto al Servizio sanitario della propria Regione: il valore medio nazionale del 62,3% oscilla tra il 77% al Nord-Ovest, il 79,4% al Nord-Est, il 61,8% al Centro e il 40,6% al Sud e nelle isole.

Social e politica: gli italiani divisi

L’uso politico dei social network divide gli italiani. I giudizi positivi sulla disintermediazione digitale in politica sono espressi da una percentuale che sfiora la metà degli italiani: complessivamente, il 47,1%. Il 16,8% ritiene che gli interventi dei politici sui social siano preziosi, perché così i politici possono parlare direttamente, senza filtri, ai cittadini. Il 30,3% pensa che siano utili, perché in questo modo i cittadini possono dire la loro rivolgendosi direttamente ai politici. Invece, il 23,7% crede che siano inutili, perché le notizie importanti si trovano nei giornali e in tv, il resto è gossip. Infine, il 29,2% è convinto che siano dannosi, perché favoriscono il populismo attraverso le semplificazioni, gli slogan e gli insulti rivolti agli avversari.

Tecnologia e questioni aperte dell’era digitale

Per quanto riguarda la comunicazione il 59,4% degli italiani che possiedono un cellulare evoluto dichiara che, invece di telefonare, preferisce inviare messaggi per comunicare. Il 50,9% controlla le notifiche del telefono come prima cosa al risveglio o come ultima prima di andare a dormire. Il 48,4% controlla le previsioni meteo nel corso della giornata. Il 30,1%, invece di digitare sulla tastiera, invia messaggi vocali. Un’altra piccola ossessione quotidiana riguarda il rapporto con la memoria. Il cellulare diventa una “protesi” utile ai nostri ricordi e alle nostre conoscenze, al punto che il 37,9% degli utenti, quando non ricorda un nome, una data o un evento, si affida alle risposte della rete per fugare ogni dubbio. E il 25,8% non esce di casa senza portare con sé il caricabatteria del cellulare.

Le questioni principali dell’era digitale: per il 42,5% il problema numero uno è la diffusione di comportamenti violenti, dal cyber-bullismo alle diffamazioni e intimidazioni online. Al secondo posto, il 41,5% colloca il tema della protezione della privacy. Segue il rischio della manipolazione delle informazioni attraverso le fake news (40,4%) e poi la possibilità di imbattersi in reati digitali, come le frodi telematiche (35,5%).

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