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Home » Politica » “Moro. Il caso non è chiuso”, i soldi per il riscatto erano pronti nella villa di Castel Gandolfo

“Moro. Il caso non è chiuso”, i soldi per il riscatto erano pronti nella villa di Castel Gandolfo

16 Novembre 2018

Dal il Fatto Quotidiano riprendiamo e pubblichiamo

Tutti ricordano l’appello di San Paolo VI alle Brigate rosse per la liberazione di Aldo Moro. Così come tutti ricordano la struggente preghiera pronunciata da Montini al funerale dello statista democristiano. Prima volta nella storia che un Papa presiedeva le esequie di un laico. Funerale celebrato nella Basilica di San Giovanni in Laterano davanti alle più alte cariche dello Stato e della Dc, ma senza la bara di Moro per volontà della famiglia in aperta polemica con coloro che, a loro giudizio, erano stati i veri assassini.

Per anni ci si è domandati cosa Montini in concreto avesse fatto, in quei drammatici lunghi giorni del rapimento di Moro, per salvare la vita dello statista democristiano. A restituire quella pagina di storia, nel momento in cui Paolo VI è stato canonizzato da Papa Francesco, è il libro Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta scritto a quattro mani dalla giornalista Maria Antonietta Calabrò e dal politico Giuseppe Fioroni, uscito nel maggio scorso per Lindau. Proprio quest’ultimo, nella scorsa legislatura, è stato presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Dai documenti inediti raccolti durante questo lungo lavoro è nato il volume che rende giustizia alla verità di un caso ancora molto controverso della recente storia d’Italia.

“Si è vociferato per anni – scrivono gli autori – che Papa Paolo VI aveva tentato in ogni modo di salvare lo statista Dc anche pagando un’ingente somma alle Brigate rosse. Si è parlato di una cifra pari a 50 miliardi di vecchie lire messa a disposizione dallo Ior. Invece non fu così. Sappiamo come andò solo da qualche mese. Da quando cioè il 4 dicembre 2017 monsignor Fabio Fabbri, che fino al 1999 è stato il vice ispettore dei cappellani delle carceri italiane, braccio destro dell’uomo che per il Vaticano e il Papa gestì le trattative con le Brigate Rosse, cioè il capo dei cappellani delle carceri don Cesare Curioni (deceduto nel 1996), ha testimoniato davanti alla Commissione Moro 2”.

Monsignor Fabbri ha raccontato che “i soldi recavano la fascetta di una banca estera, precisamente israeliana, di Tel Aviv. Del resto io conosco bene i caratteri ebraici. Il denaro era in una sala della residenza di Castel Gandolfo, ricordo sotto una coperta di ciniglia azzurra, e mi furono mostrati direttamente dal Santo Padre, era una bella montagnetta alta almeno mezzo metro. Questa somma a quanto mi riferì don Curioni fu ottenuta grazie all’impegno personale di un imprenditore israeliano che si occupava di pelletteria e di scarpe”.

Calabrò e Fioroni scrivono che “in base agli accertamenti della Commissione Moro 2, chi mise a disposizione del Papa e della Santa Sede la somma del riscatto per ottenere la salvezza di Moro, era un uomo d’affari israeliano di origini francesi Shmuel ‘Sammy’ Flatto-Sharon, che all’epoca del sequestro era membro della Knesset dove rimase parlamentare fino al 1981. Richiesto di confermare l’identità dell’uomo, dopo i riscontri ottenuti indipendentemente dall’organismo parlamentare, Fabbri lo ha fatto. ‘Visto che mi viene fatto il nome di Flatto-Sharon posso dire che il suo nome mi suona in relazione a questa vicenda. Non ho la minima idea di dove sia finito quel denaro dopo il fallimento della trattativa. Lo vidi comunque due o tre giorni prima della morte dell’onorevole Moro’. Quindi il danaro per pagare il riscatto in cambio della vita di Moro era pronto. Era nella villa pontificia di Castel Gandolfo,a disposizione di Paolo VI, il Papa amico di Moro”.

Come è noto, però, il tentativo di Montini fallì miseramente. I due autori precisano che “è solo con il lavoro della Commissione che si è giunti, da poco, a fissare i fatti certi. Comprovati anche da altri testimoni. Come per esempio il generale dell’Arma dei CarabinieriAntonio Federico Cornacchia (il cui nome risultò negli elenchi della P2), comandante del Nucleo Investigativo di Roma all’epoca del sequestro, quindi il responsabile operativo delle indagini su Moro, che ha descritto anche come fallì il tentativo di Paolo VI”.

Calabrò e Fioroni, infatti, scrivono che “dalla sua deposizione del 5 ottobre 2016 emerge che il tentativo andò in fumo la sera del 6 maggio 1978 (alle 19.40) quando, mentre Cornacchia era nella residenza pontificia di Castel Gandolfo, monsignor Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, ricevette una misteriosa telefonata, sbiancò in volto e ‘ci informa che tutto è andato a monte’. Anche Cornacchia afferma di aver visto con i suoi occhi, chiusi da una fascetta con la scritta di una banca, 10 miliardi pronti in un cofanetto. ‘Non li ho contati, ma li ho visti’”.

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