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Home » Italia » Ricordi su Paolo VI

Ricordi su Paolo VI

7 Agosto 2018

di Lucio D’Ubaldo

La figura di Paolo VI ci appare vicina e distante, come avviene sempre nel ricordo di uomini o donne che segnano con la loro impronta un’epoca. A 40 anni dalla morte nessuno più contesta la grandezza di questo papa: con lui l’opera del Concilio ha trovato una dimensione, o forse sarebbe meglio dire un ordine, che i padri convenuti a Roma avrebbero potuto anche non afferrare, per le tensioni e la stanchezza evidenziate nelle ultime battute dei lavori conciliari. Basterebbe questo per riconoscere quanto abbia influito Montini sul futuro della Chiesa e del mondo. La sua lucida interrogazione sul progresso, con la pazienza dell’esploratore e lo scrupolo del pedagogo, ha lasciato una traccia indelebile.

A noi giovani degli anni ‘70, che venivano formandoci nel clima inquieto delle parrocchie romane, tra le forme appesantite del vecchio associazionismo (Azione Cattolica) e le testimonianze radicali alla dom Franzoni o don Sardelli, Paolo VI sembrava antico nonostante le aperture e i gesti inaspettati di cui si era fatto interprete, con sobrietà e fermezza, già nel decennio precedente. Forse, in quel tempo, serpeggiava l’idea tra noi che il papa – in realtà qualunque papa – fosse il simbolo, in sé e per sé, di una Chiesa distante dal mondo. E noi, sentendoci mondo, avevamo la percezione di stare nella Chiesa, nonostante tutto, ma non con la Chiesa. Almeno non con quella che i contestatori, molti dei quali avrebbero rivelato poi una certa approssimazione sul piano culturale, se non propriamente teologico, usavano all’epoca mettere sotto accusa.

Vivemmo, più o meno inconsapevolmente la nostra piccola apostasia di credenti in un Dio di un’altra Chiesa, sempre nostra e tuttavia diversa. Ma non sapevamo dire cosa potesse significare questa diversità, salvo pretendere di fare dell’impegno politico, quando il post-sessantotto impose il canone dell’homo totus politicus, il cardine di ogni rinnovamento. A San Tarcisio, la mia parrocchia, inventammo una messa con il commento libero delle scritture, pronti a difendere l’intervento di un coetaneo senza fede, anzi “ateo” perché marxista. Si chiamava Franco, è morto troppo giovane: grazie a lui, dichiaratamente fuori dalla Chiesa e con in testa il mito della rivoluzione comunista, prendemmo tra le mani “Lettere a una professoressa”, il libro più noto di don Milani. Questi erano gli anni ‘70.

In quella temperie Paolo VI fu capace di comprendere e di resistere, dando un’immagine di ieraticità fuori tempo e insieme, per così dire, di sofferente contemporaneità. Inaugurò il profilo di un papato universale, viaggiando e scrivendo, facendo sentire la sua voce sui grandi temi dell’umanità. Parlò di pace all’Onu, alzando il tono quando pronunciò la frase “jamais plus la guerre, jamais” (mai più la guerra, mai più). Ebbe coraggio. In effetti, anche la sua enciclica più contestata, la Humanae vitae, andrebbe riletta per il suo valore – oggi che misuriamo la potenza e l’insidia della tecno-scienza, con il pericolo ad esempio di una ricerca genetica a fini di manipolazione – di mirabile documento a difesa della “condizione umana”. Alla modernità, dunque, il papa offriva tutta intera la santità della Chiesa maestra e meretrice. Ce ne siamo accorti dopo, alla sua morte, quale fosse il senso di quella sua visione mite e severa, che lo portava ad affermare, sulle orme del Maritain che da giovane aveva tradotto e poi diffuso tra i fucini degli anni ‘30, come la crisi del mondo contemporaneo fosse essenzialmente il portato di una “crisi del pensiero”.

A me non capitò di ascoltare dal vivo la preghiera a San Giovanni. In basilica, per il funerale di Moro, molti giovani che tenevano in mano la bandiera dello scudo crociato non poterono entrare. A me fu dato, invece, di seguire l’istinto alla notizia diffusa in serata della radio: “Si è spento nella residenza pontificia di Castel Gandolfo Sua Santità Paolo VI”. Ero in vacanza con la famiglia e decisi di prendere il treno: da Civita Castellana a Roma Termini, con l’accelerato che, a dispetto del nome, fermava a tutte le stazioni: quasi un’ora e mezza di viaggio. Ricordo solo che faceva molto caldo e in piazza San Pietro c’era più gente di quanto mi aspettassi. Non so perché l’ho fatto e mi caricherei, pertanto, di un merito inesistente se proponessi, oggi per allora, un motivo fondato e strutturato. Sentivo che era giusto essere lì, anche se non conoscevo nessuno, anche se alla lunga cerimonia partecipai a distanza, senza il beneficio dei maxi schermi, da solo. Era giusto esserci e dopo tanti anni posso dire, a me stesso, di aver fatto bene.

P.S. Ai lettori che avranno la curiosità di leggere un testo di Paolo VI, proponiamo il suo “Credo” scritto a conclusione dell’anno della fede, nel 1968.

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/motu_proprio/documents/hf_p-vi_motu-proprio_19680630_credo.html

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