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Home » Cultura » In ricordo di Paolo Emilio Taviani

In ricordo di Paolo Emilio Taviani

19 Giugno 2018

di Angelo Allegrini

Uno dei personaggi affrontati da Aldo Moro nelle sue lettere scritte durante la prigionia fu Paolo Emilio Taviani.

Nella missiva allegata al comunicato n° 5 delle Brigate Rosse, Moro accusò infatti  il senatore ligure della D.C. di spregiudicatezza, tacciando una sua dichiarazione con cui lo aveva smentito come irrispettosa e provocatoria.

E’ stato discusso a lungo in merito alle imputazioni contenute nelle carte di Moro che le B.R. divulgarono durante il sequestro ed è ancora aperta la questione del significato di molte delle sue argomentazioni ma, almeno in questo caso, fu lo stesso prigioniero a fornirci l’interpretazione autentica delle sue parole specificando che nei suoi rilievi non c’era niente di personale, ma che era solo sospinto dallo stato di necessità.

In realtà, se Paolo Emilio Taviani fosse vivo, probabilmente avrebbe ricordato ai politici di oggi quelle norme del codice di Cichero che regolava la vita dei partigiani durante la Resistenza e che molto bene si addicono a chi guida e comanda una nazione:

…quando si arriva alla fontana , quando si beve alla bottiglia, si beve per ultimo.
Il capo beve per ultimo.
Il capo mangia per ultimo.
Il capo sceglie per ultimo il suo boccone.
Il capo nella notte fa il turno peggiore.

Ma Taviani non fu soltanto un partigiano; oltre che essere un combattente per la libertà fu anche e soprattutto un uomo dall’ingegno straordinario, un fine intellettuale, un maestro di vita, plurilaureato e diplomato in Archivistica, paleografia e diplomatica; da dirigente della FUCI ebbe l’opportunità  di partecipare, assieme ad un’altra sessantina di personaggi, tra cui alcuni importanti e famosi come Dossetti e La Pira, alla settimana di Camaldoli, il convegno annuale di studi sociali che nel 1943, esattamente nei giorni della caduta del fascismo e della defenestrazione di Mussolini ad opera del Gran Consiglio, produsse il Codice di Camaldoli, una specie di magna charta con 99 enunciati che dovevano orientare l’impegno e l’azione dei cattolici democratici nella vita sociale, economica e politica italiana.

In particolare Taviani contribuì in maniera personale alla redazione degli articoli sulla proprietà e questo lavoro gli valse come referenza per la definizione del concetto sulla Costituzione ma il Codice di Camaldoli fu veramente una specie di stella polare che definì l’azione di molti uomini di governo della futura repubblica.

Nonostante siano trascorsi settantacinque anni dalla sua stesura, rileggere il codice di Camaldoli oggi, almeno in alcune sue parti meno legate alla contemporaneità, produce un effetto inaspettato per l’attualità di alcune sue parti che sembrano scritte proprio per i nostri tempi e per questi giorni:

Parlando dello stato, al primo capitolo, il codice offre subito la cifra interpretativa dell’intero contenuto:

lo stato ha dei suoi fini specifici, che, qualunque siano gli altri fini che le circostanze storiche gli impongono di assumere, è tenuto a realizzare. E cioè esso deve:

  1. a) garantire i diritti di tutti gli individui e delle comunità e società che essi formano …;
  2. b) provvedere agli interessi che sono comuni a tutti, … onde assicurare le condizioni fondamentali del libero sviluppo e della pienezza di vita degli individui, delle famiglie e delle forze sociali che da essi legittimamente nascono.

Per realizzare questo fine lo stato deve riconoscere come legge indeclinabile di ogni attività umana, … la legge morale, e in particolare i principi fondamentali dell’ordine giuridico, cioè della giustizia.

Un assunto chiaro da cui i convegnisti, assistiti da Giovan Battista Montini, il futuro Paolo VI, fecero discendere tutti i 99 enunciati del codice.

Tra questi , alcuni sembrano particolarmente attuali ed adatti al momento difficile che stiamo vivendo.

  • Limiti dell’azione finanziaria. (o dei governi tecnici)

Risponde a giustizia che i sacrifici richiesti dall’azione finanziaria siano mantenuti entro i limiti strettamente necessari per il conseguimento degli scopi di utilità sociale che la stessa si propone di raggiungere:

Dipende da ciò:

1) che i sacrifici debbono essere chiesti ed imposti nelle forme e nei tempi che ne rendono meno grave la sopportazione da parte dei soggetti. Le formalità, le prestazioni accessorie, le sottigliezze di applicazione, devono essere ridotte al minimo, onde evitare inutili aggravi e sofferenze;

2) che nella esazione e nell’amministrazione del denaro pubblico devono seguirsi i sistemi meno complessi e più economici possibili;

3) che l’altezza dell’imposizione deve essere regolata in modo da non opprimere il soggetto e da lasciargli in ogni caso la possibilità di provvedere onestamente ai bisogni suoi e della sua famiglia ed alla elevazione propria e dei propri familiari, secondo le necessità dell’ambiente in cui vive;

4) che gli investiti della pubblica amministrazione debbono in ogni momento inspirare la loro azione al principio fondamentale che il denaro pubblico è inviolabile ed alla considerazione essenziale che chi disperde, male amministra o si appropria di denaro pubblico pecca contro la giustizia.

  • Inconvenienti degli eccessivi accentramenti di ricchezza. (o dei conflitti di interesse)

L’adempimento della funzione sociale della proprietà privata riguarda tutti i beni, ma in modo particolare e diretto i beni non necessari al proprietario.

Rilevanti accumulazioni di beni nelle mani di singoli in quanto determinino lo strapotere di pochi, ovvero la loro coalizione per la difesa politica del privilegio così acquistato, ostacolano un libero ed ordinato svolgersi della vita sociale, alterano una razionale destinazione delle risorse naturali, degli strumenti tecnici e del risparmio della collettività alla produzione dei più necessari beni di consumo e impediscono infine una equa distribuzione dei beni di consumo disponibili.

Se questo stato di cose non si ritiene possa essere rapidamente corretto attraverso una naturale evoluzione della struttura economica, un razionale intervento dell’autorità atto ad eliminare gli eccessivi accentramenti di ricchezza e le maggiori disparità economiche è imposto dalla tutela del bene comune ed è quindi pienamente legittimo.

  • Dei diritti degli immigrati

La facoltà di emigrare risponde al diritto di libertà della persona umana. Nell’uso di questa facoltà si deve tener conto delle esigenze del bene comune sia nazionale sia internazionale.

Lo Stato deve accordare agli stranieri emigrati nel suo territorio rispetto e tutela conforme ai principi sopra enunciati.

Inoltre, tra un’azione partigiana e un’altra, a guerra non ancora finita Taviani formulò anche una sua propria concezione di politica estera ed europea.

Anche qui con una capacità di preveggenza non comune Taviani capì che l’Europa non doveva essere una unione di tipo prevalentemente economico ma principalmente politico.

Una riflessione che assieme a Mounier partiva dalla crisi mondiale del ’29 che non era solo una crisi finanziaria ma un vero e proprio disordine determinato dalla dimenticanza dei valori e dalla troppa importanza del denaro.

Già nel ’44 è fin troppo chiaro il fallimento del nazionalismo che, tedesco o italiano, aveva procurato due  guerre disastrose; anche il principio della cosiddetta taglia degli stati è rimesso in discussione e Taviani elabora la proposta delle Unità federative continentali, ossia di aggregazioni medio-grandi fra i governi del vecchio continente.

«L’esigenza dell’unità europea» scrisse Taviani nel novembre 1954 «è collegata alla preoccupazione di inserire durevolmente il popolo tedesco in una istituzionale solidarietà democratica, ma deriva soprattutto dalla constatata impossibilità di mantenere a lungo – nel mondo contemporaneo – su di un piano di dignità e di piena indipendenza gli Stati che abbiano unità di misura nazionale. L’unità di misura nazionale è troppo piccola per reggere negli attuali confronti della storia: la sopranazionalità è stata vista e intesa non come sacrificio della Nazione, ma come unico modo di garantirla, consolidarla e potenziarla».

Taviani fu un pensatore straordinario; fra tutti i partecipanti alla settimana di Camaldoli egli fu probabilmente il massimo interprete italiano del personalismo comunitario.

Il personalismo era la corrente filosofica fondata in Francia da Emmanuel Mounier e diffusa dal movimento che si forma e si raccoglie intorno alla rivista Esprit a partire dal 1932.

Volendo sintetizzare all’estremo il contenuto del pensiero personalista possiamo dire che al centro dell’attenzione veniva posto l’uomo in termine assoluto.

“…per definizione la persona è ciò che non può essere ripetuto due volte” diceva Mounier e Taviani già nel 1946 nella sua opera “La proprietà”, riprese i concetti  della scuola del personalismo per rielaborali e farne oggetto di un proprio modello di ordine economico che prevedeva forti limiti alla quantità di beni immobili “suscettibili di possesso privato”, forti limiti alle trasmissioni ereditarie e, in contrapposizione alle forme di proprietà anonima proprie del moderno capitalismo, la diretta e personale responsabilità per qualsiasi tipo di proprietà.

Il diritto di proprietà discende dalla creazione come diritto all’uso comune dei beni della terra che deve però soddisfare al tempo stesso il principio della “comunanza universale” e quello della libera disposizione esclusiva e personale.

La proprietà privata si giustifica dunque come un mezzo di cui l’uomo dispone per portare a compimento – in condizioni di libertà e indipendenza – la sua missione sulla terra. L’appropriazione personale ha perciò, nell’ordine della natura, la funzione di contribuire al potenziamento della persona umana, sua universale e naturale ragion d’essere.

Erano concetti molto avanzati, progressisti, diremo oggi, elaborati dalla mente aperta di un uomo che pur raggiungendo livelli molto alti di autorità e di potere non si lasciò mai confondere e forse per questo pagò il prezzo del non raggiungimento della stessa notorietà che ottennero molti suoi amici e colleghi:

Segretario nazionale della DC ma senza il consenso e il voto dei professorini della sinistra di Cronache sociali, vice presidente del consiglio, più volte ministro, combatté con forza e vigore terrorismo rosso e nero, sciolse ordine nuovo e perseguì le B.R., fautore del centrosinistra in Liguria in anticipo sulle vicende nazionali, respinse la proposta del presidente Segni di formare un governo reazionario e d’emergenza, mai coinvolto in scandali o inchieste, presidente fino alla sua morte del museo della Liberazione in Via Tasso e testimone del valore della Resistenza, Paolo Emilio Taviani rimase per molti un doroteo che non suscitava tra i giovani gli stessi entusiasmi di un Fanfani o di un La Pira e che gli preferivano le figure di don Primo Mazzolari o dell’altro partigiano Enrico Mattei.

Il re di Bavari veniva chiamato ingiustamente allo scopo di tratteggiare un’immagine diversa da quella dell’uomo che si ritirava spesso nella casa di campagna di famiglia, tutto sommato modesta, per parlare con i compaesani e ritrovarsi con i propri cari.

Per questo oggi, a distanza di diciassette anni dalla sua morte, è giusto ricordarlo in un momento di difficoltà del nostro Paese in cui servirebbero uomini disinteressati, del suo calibro.

 

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