Le elezioni di domenica sanciscono in maniera definitiva, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno, l’inconsistenza elettorale della “sinistra sinistra”. Quella più vintage, velleitaria e anacronistica. Anacronistica nello stile, nell’abbigliamento, nel linguaggio. Quella a cui il popolo sembra ormai non credere più, si chiami Rifondazione comunista, si chiami Potere al popolo, si chiami Lavoro e Beni comuni come la lista di Paola Celletti che infatti non è riuscita a superare la fatidica soglia di sbarramento del 3%. Viterbo è sempre stata una città di destra, obietteranno Prestininzi, Daniele Cario e compagni. Il problema è che così succede ormai dappertutto in Italia, anche nell’ex Stalingrado della Tuscia: Civita Castellana.
Discorso a parte andrebbe fatto per LeU, i liberi e uguali di Bersani e D’Alema, con Pietro Grasso messo a fare la foglia di fico. Uomini che gli ideali della sinistra li avevano abiurati e rottamati già vent’anni prima dell’avvento di Matteo Renzi, tra inciuci, bicamerali, liberalizzazioni e privatizzazioni, capitani coraggiosi, elogi della flessibilità con annessi pacchetti Treu, mani nelle banche e merchant bank a Palazzo Chigi, salvo poi riscoprirsi marxisti-leninisti dopo essere stati scavalcati a destra dall’uomo di Rignano sull’Arno.
Alla gente dei Parioli, piuttosto che a quella delle borgate e delle fabbriche, la sinistra aveva iniziato a parlare già dai tempi di Ikarus, la mitica barca a vela del lìder Maximo (D’Alema), e del cachemire del comandante Fausto (Bertinotti). Resiste ancora però una sinistra meno chic ma sempre molto radical, che anche quando esprime idee giuste o condivisibili (sui diritti civili, sull’ambiente, sulla difesa dell’acqua pubblica) lo fa con linguaggi e forme insopportabilmente datate. E si sa che la forma è anche sostanza.