Circa 13mila voti per Giovanni Arena, che tra quindici giorni va al ballottaggio con ottime possibilità di diventare sindaco. Per lui una grande soddisfazione a conclusione di una carriera politica che l’aveva finora visto relegato quasi sempre in posizioni di secondo piano a causa delle dinamiche che sono regnate per decenni in casa azzurra. Insieme ad Arena possono dirsi ugualmente soddisfatti il senatore Francesco Battistoni e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, che l’hanno difeso con le unghie e i denti dalla Lega, che avrebbe voluto candidare Alessandro Usai.
Tredicimila voti rappresentano però solo un quarto dell’elettorato e ciò in fondo è la dimostrazione di come la città, al di là dei risultati percentuali, abbia vissuto con grande insofferenza questa campagna elettorale, che ha riproposto localmente dinamiche datate, di fatto superate dai cambiamenti che stanno avvenendo a livello nazionale. A conferma di questa lettura dei fatti, c’è il dato sull’affluenza, in calo di cinque punti rispetto a 5 anni fa. Colpisce inoltre la performance della Lega, che, contrariamente alle attese dei suoi dirigenti, non è riuscita a sfondare. In questo caso non ci sono particolari analisi da fare: quando il Carroccio si presenta alle politiche viene trainato da Matteo Salvini, quando invece si affida a volti che da anni e anni calcano la scena locale, o che non sono particolarmente radicati sul territorio, subisce inevitabilmente una battuta d’arresto. Una legge, questa, che vale per tutti i partiti e i movimenti politici. La prova del nove giunge dal Movimento 5 Stelle e dal suo candidato Massimo Erbetti.
Il centrosinistra paga soprattutto la spaccatura voluta dalla minoranza del partito, se è vero che, sommando (anche se in effetti il risultato finale potrebbe essere stato leggermente diverso) i voti di Luisa Ciambella a quelli di Francesco Serra, si sarebbe potuto ottenere un lusinghiero 22 per cento, che avrebbe potuto riaprire la partita al secondo turno, dove, scomparsi dalla scena i partiti e i candidati a consigliere, giocano un ruolo determinante solo le facce dei candidati a sindaco. E’ ovvio che quanto accaduto non potrà passare sotto silenzio all’interno del Pd, sia a Viterbo che a Roma.
Lo Frontini va al ballottaggio dopo cinque anni di opposizione sempre vissuta in prima linea. Ha condotto una campagna elettorale molto capillare sul territorio e alla fine il risultato doveva arrivare. Centra però l’obiettivo solo con 5500 voti, ossia con la fiducia di un viterbese su 10. Non proprio il massimo in una città di 60 e passa mila abitanti. A suo favore hanno giocato la frammentazione del quadro politico generale e la spaccatura del centrosinistra. I pochi voti ottenuti in valore assoluto la dicono lunga perciò sul clima di pesantezza avvertito in generale dagli elettori sul ceto politico viterbese e sulla strada da fare per costruire, da parte di chicchessia, una credibile e solida alternativa, senza con ciò voler nulla togliere alla Frontini, a cui va riconosciuto il merito di aver intercettato la voglia di cambiamento e di rappresentare, complici le debolezze altrui, una ventata di freschezza in una città prigioniera dei suoi fantasmi.
Queste elezioni sanciscono infine il tramonto del movimento civico di Filippo Rossi, che quasi dimezza i voti rispetto a cinque anni. Forse in Consiglio sarà eletto solo lui. Inutile in questa fase addentrarsi troppo nelle analisi, per farlo ci sarà tempo nei prossimi giorni. Per ora basta limitarsi a una sola considerazione: Rossi paga il suo eterno andare da una parte all’altra, ossia il suo fin troppo palese opportunismo finalizzato a salvaguardare le proprie rendite di posizione.