di Ugolino Conte
Ai miei ventiquattro lettori devo precisare che il candidato più accreditato in queste ore alla Presidenza del Consiglio, il cui cognome potrebbe indurre a facili conclusioni, non è mio parente. Non so se rammaricarmene, ma troverei antipatico che si nutrisse il sospetto benevolo o negativo di un qualche legame di ordine familiare. Non sono così fortunato.
È vero, molti si chiamano Conte e dunque lo scrupolo di questa comunicazione potrebbe apparire superfluo. Ma in questo Paese abituato da secoli a fiutare il vento e aggiustare la rotta, bisogna pur dare un segno, anche se modesto e piccino, di estraneità alle peggiori costumanze italiche. Non desidero accodarmi alla nutrita schiera, ogni giorno in via di sostanziale rinfoltimento, che scopre di colpo un motivo – ne basta alle volte uno solo – per confessare una disposizione d’animo favorevole all’incauto connubio di Salvini e Di Maio. D’altronde i sondaggi, prima ancora che la liturgia costituzionale metta i sigilli sul nuovo patto di governo, segnalano spostamenti vistosi a favore del fronte leghista, senza particolari flessioni di quello grillino.
Forse piace l’affermazione del Capo politico dei 5 Stelle, per la quale apprendiamo che il designato alla guida dell’esecutivo giallo-verde, evidentemente anche nell’ipotesi che sia il mio omonimo Conte, porta le stigmate di “amico del popolo”. Questa sarebbe la novità, di per sé convincente e rassicurante, che il laboratorio milanese della Casaleggio Associati ha selezionato per noi. Da oggi i libri di storia andranno riscritti da cima a a fondo perché la logica induce a catalogare tutta la sequela di governanti e statisti – da quando si parte, dal 1945 o dal 1861? – in un grande libro nero dei “non amici del popolo”.
Del resto, se in Gran Bretagna un Duca fa sognare i sudditi con lo spettacolo del suo royal wedding, in Italia un Conte può presentarsi – o meglio essere presentato – come un novello Braccio da Montone (al servizio della sua gente). Salvini e Di Maio lo hanno scelto, il loro capitano di ventura, con il presupposto di concepirne la funzione ben diversamente da quella strappata sul campo dagli ardimentosi condottieri medioevali; a detta loro, salendo al Quirinale, si accingono a indicarlo nel rispetto delle prerogative presidenziali; e dunque spiegheranno a Mattarella come e perché il nostro Conte – se poi davvero sarà lui il designato – rifulge più di altri di questa mistica aureola di amico del popolo. È la nostra favola bella, che ancora ci illude, per magico incanto dei presunti vincitori del 4 marzo.
Una favola che viviamo con spensieratezza, per ora, malgrado qualche decina di miliardi già persi sui mercati internazionali, dove purtroppo le fantasie dei populisti non riscuotono la stessa fiducia accordata dai sondaggisti. Piccole asimmetrie disdicevoli, ma sempre in linea con la propensione al gusto italico per il corporativismo e l’anarchia. L’importante è che le stanze del potere si aprano finalmente all’amico del popolo. E tutto andrà per il verso giusto.