di Lucio D’Ubaldo
Il 13 maggio, 40 anni fa, non era una domenica. Il tempo si mostrava né bello né brutto, come oggi, anche se l’animo di tutti noi avrebbe conservato l’immagine di un pomeriggio decisamente grigio, anzi plumbeo. Era di sabato, a San Giovanni, e portavamo con noi le bandiere bianche. Lo avevamo fatto per settimane e settimane, in ogni occasione che doveva segnare la necessità di una pubblica testimonianza, per non arrenderci all’evidenza del male.
Noi, i giovani democristiani di Roma, quelli che il 16 marzo partirono in corteo – senza indicazioni di partito, senza il sigillo di ufficialità di piazza del Gesù o piazza Nicosia (sede del Comitato romano) – per entrare a San Giovanni come manipolo di irriducibili scudocrociati; noi, in quel pomeriggio di lutto, stavamo assiepati di nuovo lì, a ridosso della Basilica, dietro le transenne e fuori dalla scena dei riflettori e delle telecamere.
Ai funerali di Stato non eravamo ammessi, di quello che accadde dentro, con il discorso immenso e struggente di Paolo VI, sapemmo tutto dopo. Anche un giornalista de “Il Popolo” (Pio Cerocchi) non aveva avuto accesso e deprecava ad alta voce, sciamando nervosamente tra le transenne e la Basilica, l’inammissibile esclusione. Si celebrava, dunque, il funerale di Moro, ma non con il suo corpo né con la sua gente.
Per questo avvertivamo un senso di amarezza e smarrimento; per questo ci aggrappavamo al rituale di un muto sventolio di bandiere. Non avevamo altro modo per rendere visibile – gli uni agli altri – la nostra incredulità di fronte alla tragedia consumata nei 55 giorni del sequestro, da via Fani a via Caetani, fino allo strazio del ritrovamento del corpo senza vita nel bagagliaio della Renault rossa: “Acciambellato in quella sconcia stiva”, avrebbe scritto poi il poeta Mario Luzi.
Quest’aria di quasi clandestinità del dolore, cui si opponeva un orgoglio punteggiato d’insofferenza, si attaccò sulle pelle e ci rimase a lungo, forse per sempre, se ancora oggi rimanda a una sensazione di sottile e inappagata ribellione.
Qualcuno, infine, annunciò che la cerimonia era finita. Che dovevamo fare? Tornare a casa, e basta? Ecco, non poteva concludersi così, per noi, quel funerale vissuto nel silenzio. Allora in silenzio, con le nostre bandiere, ritornammo in corteo a Piazza del Gesù. Non c’era nessuno.
P.S. Ricordo che Franco Fausti, dirigente romano del partito, tenne per mano suo figlio piccolino, per tutto il tempo, accompagnandoci in corteo. Aveva simpatia per me. Giunti a Piazza del Gesù, dette lui il segnale di concludere con un saluto e spinse me su un trespolo di fortuna, con il megafono dei nostri 55 giorni, per dire tutta l’emozione e tutta la solitudine di cui potevamo farci carico. Le parole non le ricordo, non erano importanti. Contava il fatto, allora come oggi di non essersi arresi al silenzio.