di Lucio Lamberti*
In tutta Europa con Aprile si riparla di bilancio dello Stato e di Documento di Economia e Finanza. Ogni Governo deve redigere un documento di programmazione in cui si delineano le linee di politica economica nel triennio e si delimita l’ambito entro cui costruire il bilancio annuale. Nella sezione denominata Programma Nazionale di Riforma (Pnr), il Governo italiano dovrà indicare inoltre lo stato di avanzamento delle riforme avviate, il livello degli squilibri macroeconomici nazionali, le priorità del Paese e le principali riforme da attuare. Il documento va presentato e discusso in ambito europeo per essere approvato.
Quest’anno la coincidenza con le elezioni e la ricerca di un governo ha allungato i tempi e la Commissione europea ha dato tempo al nostro Paese fino a maggio per la consegna. Tuttavia i tempi stringono e il documento andrà presentato, nonostante lo stallo politico. Gli ambiti di manovra sono stretti per gli impegni di riequilibrio del debito presi con i nostri partners europei. Il 2 marzo 2012 25 Stati dell’Ue hanno sottoscritto il «Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria» (meglio conosciuto come fiscal compact), che prevede che gli Stati firmatari si impegnino al perseguimento del pareggio di bilancio. L’Italia ha inserito questo principio in Costituzione. Ma lo Stato non può ignorare l’esigenza di rivedere le distorsioni più evidenti del modello di sviluppo attuale, o abdicare ad un ruolo attivo di politica economica.
Deve migliorare la competività e l’appetito industriale, riequilibrare i conti ed evitare l’instabilità finanziaria, ma al tempo stesso deve invertire la inerzia verso un modello latino americano di sviluppo, basato su esclusione e iniquità sociale. Certo mancano i numeri, non c’è ancora un governo nuovo in carica, ma qualcosa va fatto. Anche in tema di equità e sostenibilità sociale.
La realtà purtroppo è molto cruda. Col passare degli anni si sta allargando anche in Italia il divario tra chi ha redditi più alti e chi non riesce ad arrivare alla fine del mese: il decile più povero delle popolazione – secondo le tabelle pubblicate recentemente dall’istituto di statistica Eurostat – nel 2016 poteva contare infatti appena sull’1,8% dei redditi. Complessivamente quasi un quarto (il 24,4%) del reddito complessivo era percepito da appena il 10% della popolazione. Rispetto al 2008, anno nel quale è iniziata la crisi, il decile più benestante ha accresciuto la sua quota di reddito (23,8%) mentre quello più povero ha registrato un crollo (era il 2,6%).
Non e’ certo un problema solo italiano, ma in Italia sta peggiorando rapidamente. Oggi in Europa quasi un quarto della popolazione, 119 milioni di persone nel 2015, si trova a rischio povertà ed esclusione sociale. Un rischio che aumenta significativamente per giovani, donne, stranieri e nuclei familiari a bassa scolarizzazione.
Tuttavia i Paesi dove l’incidenza delle persone a rischio povertà ed esclusione sociale è maggiormente aumentata nel periodo 2008-2015 sono la Grecia (7,6 p.p.), Cipro (5,6 p.p.), Spagna (4,8 p.p.) e Italia (3,2 p.p, circa 2,4 milioni di persone).

Fonte: Eurostat, aggiornamento aprile 2018
Secondo le statistiche recenti in Italia vivono in uno stato di povertà assoluta 1 milione 582 mila famiglie, per un totale di 4 milioni 598 mila individui (anno 2015). Si tratta del numero più alto degli ultimi dieci anni Dal 2007, anno che anticipa lo scoppio della crisi economica, la percentuale di persone povere è più che raddoppiata, passando dal 3,1% al 7,6 con una crescita sostanzialmente continua.
A livello territoriale, è ancora il Mezzogiorno a vivere la situazione più difficile; in queste aree si registra, infatti, l’incidenza più alta misurata sia sugli individui (10,0%) che sulle famiglie (9,1%). E, proprio al Sud, dove vive il 34,4% dei residenti d’Italia, si concentra il 45,3% dei poveri di tutta la nazione.
Tab.1- Incidenza della povertà assoluta (individui) per macroregione – Anni 2007-2015 (%) (fonte Istat)
2007 2015
NORD 2,6 6,7
CENTRO 2,8 5,6
MEZZOGIORNO 3,8 10,0
ITALIA 3,1 7,6
E’ un problema anche di tipo generazionale. I dati Istat descrivono una povertà che potrebbe definirsi “inversamente proporzionale all’età”, che tende, cioè, a diminuire all’aumentare di quest’ultima. L’incidenza più alta si registra tra i minori, gli under 18, seguita dalla classe 18-34 anni; al contrario gli over 65, diversamente da quanto accadeva meno di un decennio fa, si attestano su livelli contenuti di disagio.
Degli oltre 4,5 milioni di poveri totali, il 46,6% risulta under 34; in termini assoluti si tratta di 2 milioni 144 mila individui, dei quali 1 milione 131 mila minori . I divari di ricchezza tra giovani e anziani si sono progressivamente ampliati: in termini reali la ricchezza media delle famiglie con capofamiglia tra i 18 e i 34 anni è meno della metà di quella registrata nel 1995, mentre quella delle famiglie con capofamiglia con almeno 65 anni è aumentata di circa il 60%. Il recente Rapporto McKinsey titolato “Poorer thain their parents: a new perspective on income inequality” evidenzia come oggi per la prima volta dal dopoguerra c’è il serio rischio che i figli “finiscano la loro vita più poveri dei loro padri”, soprattutto in Italia.

Ma è anche un problema di sostenibilità demografica. Sul fronte delle tipologie familiari la povertà assoluta raggiunge livelli molto elevati tra le famiglie numerose con 5 o più componenti, specie se al suo interno ci sono 3 o più figli minori (18,3%). Tuttavia a registrare un forte peggioramento da un anno all’altro, e ancor più nel corso degli ultimi otto anni, sono i nuclei composti da 4 componenti, in particolare le coppie con due figli. Quindi, se in passato costituiva un elemento di rischio la presenza di almeno tre figli, oggi si palesano in tutta la loro gravità anche le difficoltà dei nuclei meno numerosi. Anche il dato disaggregato per tipologia familiare conferma la situazione di minor svantaggio degli ultra -sessantacinquenni, in coppia, soli o in famiglia.

Abbiamo quindi un problema di esclusione di fasce importanti di popolazione, difficoltà dei giovani e difficoltà delle famiglie. E’ evidente che questo tipo di contesto ha un impatto strategicamente rilevante sul tipo di sviluppo che ci aspetta. Crescita zero o negativa, fuga delle competenze, depauperamento delle competenze, disincentivo dei giovani.
Sgombriamo il campo da un pregiudizio: Iniquità sociale e sviluppo economico non sono sinonimi. Al contrario. Le fasi di maggiore sviluppo si sono coniugate colla permeabilità tra classi sociali, e la pace sociale. L’idea di sostenibilità sociale implica il diritto di vivere in un contesto che possa esprimere le potenzialità di ogni individuo. Attenzione: non assistenzialismo, che significa distorsione clientelare e depauperamento, ma opportunità, incentivo alla operosità, semplificazione e dignità del lavoro.
Lucio Lamberti, docente di scienza delle finanze (Università San Raffaele Roma),
consulente ed economista

