di Cristian Coriolano
È stata una domenica perturbata quella di due giorni fa, non per il tempo che in gran parte d’Italia ha regalato un sole di allegrezza primaverile. Invece dalle parti della politica, contrariamente alle temperature tiepide, si è registrata una fredda e convulsa articolazione delle mosse del centrodestra. Il rapido vertice di Arcore è servito – e non per molto – a imprimere sulla scena pubblica un segno di unità e concordia. Salvo poi, sulla piazza di Treviso, scoprire la nervosa reazione di Salvini: non se ne parla di stare insieme per circoscrivere ed erodere il consenso della Lega. Gli ex Lumbard, con il loro leader, mordono il freno.
Che cosa significhi, in concreto, questa insofferenza salviniana non è dato di comprendere, se non accettando di vedere attraverso la sua manifestazione il disagio e la fragilità di un presunto vincitore alle prese con la difficile costruzione di una maggioranza di governo. Ecco perché il tono del confronto si fa più alto, con l’evocazione di una sempre possibile scorciatoia lungo il sentiero del ritorno alle urne, costi quel che costi. In sostanza, una possibilità estrema che suona anzitutto come un monito o peggio ancora una minaccia verso gli alleati, in particolare verso Berlusconi.
Intanto, sull’altro versante, Di Maio rafforza il veto su Forza Italia. Casaleggio e Grillo danno mostra di plaudire, quando sembra evidente però che l’irrigidimento dei pentastellati, con garbata tiratina di giacca per l’aspirante capo del governo, sia frutto della loro permanente e stretta sorveglianza sulle mosse del gruppo dirigente. L’idea di una trattativa fungibile, tanto con la Lega quanto con il Pd, accusa una battuta d’arresto. Anche Di Maio patisce lo stato d’impotenza, a fatica mascherato, che certifica la mancanza di un aggancio in grado di superare lo stallo del 32 per cento. Al Quirinale, fatto il primo giro di consultazioni, resta a verbale che si governa con il 51 per cento.
È probabile, adesso, che Lega e M5S vogliano trasmettere al Presidente della Repubblica un messaggio convergente: se non si trova un accordo, la parola deve tornare quanto prima agli elettori. È tuttavia disposto Mattarella a sciogliere le Camere, dopo pochi mesi, senza aver tentato di esperire tutti i passaggi utili a garantire uno sbocco positivo della crisi post-elettorale? A rigore, salvo l’esclusione di una sorta di accanimento terapeutico, è precipua responsabikità del Presidente stimolare la formazione di un accordo tra le diverse forze politiche. Il problema è che il “governo del presidente” manca di coperture, anche per le difficoltà del Pd. Si tratta di capire, a questo punto, se il secondo giro di colloqui avrà il medesimo timbro del passaggio interlocutorio o se magari, anche per effetto di un mutamento di sensibilità della pubblica opinione, il rito delle verifiche politiche si farà più stringente.
È sbagliato scommettere sulla rassegnazione di Mattarella.