di Cristian Coriolano
Ogni giorno, dal 4 di marzo, si annuncia carico di svolte. L’accordo sulle presidenze di Camera e Senato aveva fatto presagire, in effetti, il raggiungimento a tempi stretti di un accordo sul governo. Invece, a vedere le mosse e contromosse dei semi-vincitori delle elezioni, questa prospettiva stenta a prendere forma. In questo modo Di Maio e Salvini tengono in ostaggio il Paese: si studiano a distanza, alludendo a similitudini e convergenze, ma non hanno la forza di chiudere la fase delle buone intenzioni per passare alle proposte operative. Tuttavia il Paese ha bisogno quanto prima di un governo, sicché le attenzioni della pubblica opinione si concentrano ormai sulla imminente apertura delle consultazioni al Quirinale.
Mattarella non può fare miracoli. Il quadro politico uscito dalle urne ha compromesso la possibilità d’individuare una chiara maggioranza. Per giunta, sull’onda di una ventennale esaltazione del bipolarismo e dell’alternanza, i due poli di aggregazione hanno assottigliato le forze equilibratrici del sistema. I commentatori più autorevoli scoprono oggi il pericolo legato alla consunzione del centro, fino ai limiti della sua scomparsa. Pesa a prima vista la netta divisione, territoriale e politica, dell’Italia: nord e sud sono più distanti, troppo separati da contrapposte e speculari aspirazioni. D’altra parte, se il desiderio di cambiamento è prevalso, come i numeri attestano con severità, si tratta pur sempre di un qualcosa che non regala facili traduzioni in programma di governo.
D’altronde due disegni s’intrecciano e giustappongono, dando il tono al cambiamento: la Lega incentrando questo sul “primato degli italiani”, in un’accezione di segno opposto all’idea cosmopolita e inclusiva di Gioberti, intellettuale e politico che a questo tema, agli inizi del Risorgimento, aveva fatto esplicito richiamo; i Cinque Stelle invece sul mito della “democrazia diretta”, capace di assorbire e superare il modello della rappresentanza per delega, con tutte le sottese ambiguità e contraddizioni. In altro contesto l’amalgama tra visioni radicali, insieme distinte e convergenti, ebbe una sua magniloquente e tragica espressione nel fascismo. Fortunatamente, la storia non si ripete.
È vero, non si ripete; ma la storia insegna anche, e soprattutto, a far tesoro degli errori. Non c’è all’orizzonte, di sicuro, l’annuncio di un regime autoritario e illiberale; ma c’è il rischio – questo sì – di una involuzione della democrazia, trasformata da pulsioni incontrastate e prolungate in “democratura”, formula adottata in grandi Paesi, come la Russia o la Turchia. All’ombra di ambizioni ultra-democratiche si consuma nel fragore di promesse un ribaltamento delle prospettive. Ci si può abituare a una democrazia sotto controllo e a una libertà guidata, finanche a una “critica sintetica”, vale a dire artificiale.
Spetta principalmente al Pd arginare tale vistosa tendenza alla radicalizzazione. Lo scacco elettorale sollecita una risposta intelligente. Qual è la missione che pesa sulle spalle dei riformisti? Non certo quella di radicalizzarsi, loro stessi, facendo delle inadempienze di leghisti e pentastellati l’innesco di un oltranzismo politico-programmatico, per portare a verità, con un sovrappiù di enfasi e disinvoltura, il messaggio allegato al voto del 4 marzo. Fare opposizione “da sinistra”, sostanzialmente a prescindere dagli interessi e dalle sensibilità di un’ampia area di centro, non suggerisce ipotesi molto allettanti. Tutto è complicato, ma un arroccamento tanto facile quanto improduttivo, produrrebbe un altro contraccolpo negativo. L’identità dei riformisti va ricercata al centro, almeno al centro rispetto alla destra di Salvini e alla sinistra di Di Maio.
Per questo il Pd ha necessità di interrogarsi a fondo.